La mia Haiti

Di Adalberto Cortesi.

 

15 gennaio 2010. - Ho vissuto ad Haiti durante 5 anni, dal  1958 al 1963, come Rappresentante della Banca Mondiale e responsabile della Missione Tecnica di Techint, per la ristrutturazione della (inesistente) rete stradale dell’epoca. 

Ancora oggi, dopo mezzo secolo, nei confronti di Haiti soffro di quello che –comunemente– in italiano viene chiamato il mal d’Africa.  Si, perché Haiti, con la sua gente, la sua lingua, la sua musica ed i suoi colori, con la sua incredibile atmosfera, ti si infila sotto la pelle e non ti lascia più. 

Oggi, davanti a questa immane tragedia che ha colpito la mia Haiti, stento a trovare le parole per parlarne e riviverla, nella memoria di allora. 

Impossibile riassumere in questa sede la complessa storia di questo popolo e di quello che sarebbe diventato, il 1 gennaio 1804, il secondo Paese indipendente del Continente Americano. Eppure, qualche concetto bisogna esprimerlo; altrimenti, quel mal d’Africa di cui sopra, perderebbe senso e valore. 

Cristoforo Colombo ci approdò nel 1492 con le sue tre caravelle, una della quali affondò sui banchi corallini. Fu poi base dei bucanieri e dei filibustieri, nella famigerata isoletta della Tortuga. Nel 1697, la parte occidentale dell’isola Hispañola (l’attuale Repubblica di Haiti) venne ceduta dalla Spagna alla Francia. A metà del XVIII secolo, in questa parte dell’isola vivevano, lavoravano e soffrivano circa 300.000 schiavi; posseduti da circa 12.000 uomini liberi, bianchi. 

Tra il 1793 ed il 1802, Toussaint Louverture capeggió la rivoluzione haitiana, contro gli europei; nel 1803 Jean Jaques Dessalines sconfisse definitivamente le truppe francesi dichiarando l’indipendenza e autoproclamandosi imperatore. 

Da allora, per decenni o meglio per due secoli, il Paese è stato bistrattato e certamente mal governato, in tutti i sensi. Quando io ci arrivai, Francois Duvalier (Papa Doc) era Presidente da un anno; governava con un pugno di ferro, sostenuto dai tontons-macoutes e dai fondi di un Occidente che –tanto per cambiare– non capiva e forse non voleva capire. 

La storia di questa mia Haiti è troppo recente, tant’è vero che sono io a scrivere queste poche righe; debbo dunque fare molta attenzione a non tradire l’etica alla quale mi sento vincolato, sia professionalmente che umanamente. 

Ma alcune esperienze sono mie e solo mie; mi considero quindi autorizzato a parlarne, perché fanno parte del mio bagaglio personale, di vita vissuta. 

Mi resi conto, nel giro di pochi mesi, che i fondi messi a disposizione dalla IBRD andavano quasi tutti a mal fine. Proposi ed ottenni che si cambiasse sistema; e fui in buona parte corresponsabile di un march’ingegno che cambiò totalmente le regole del gioco. E’ vero: strade ne vennero costruite poche; ma il popolo, quello bistrattato e vilipeso, ricevette viveri, medicinali e assistenza, di prima mano. 

Papa Doc Francois Duvalier, autoproclamatosi Presidente a vita, di estrazione era medico, laureato alla Sorbonne; ma il suo ascendente sul popolo derivava da ben altro; la verità è che, non solo dietro le quinte, egli era il più competente e potente hunga del locale woodu.  Per tenergli testa, capii che dovevo non solo parlare creolo, ma anche saper interpretare questo incredibile rituale, che sul popolo aveva un enorme ascendente. Mi ci avvicinai dunque, con rispetto, per combattere ad armi più o meno pari. 

Sopravvissi dunque, fino al 1963; ed ebbi partita vinta, perché i fondi vennero erogati, ma a modo mio, non suo. 

Dalla gente haitiana, alla quale nessuno ha mai regalato una canna da pesca e men che meno ha insegnato a pescare, ho sempre ricevuto amicizia, riconoscenza, rispetto ed affetto; posso dire che durante cinque anni mi hanno considerato uno di loro, malgrado che quello dal colore anomalo fossi proprio io! 

Davanti a questo mio popolo haitiano, davanti ai miei vecchi amici che non rispondono ai miei appelli, oggi mi alzo in piedi, in riverente e commosso silenzio.     

 

Adalberto Cortesi

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