E’ successo
in questa stanza

Di Marco Vichi.

Cominciammo a ispezionare il piano terra. Non finiva mai. Le stanze erano grandissime e vuote. Sulle pareti dei salotti erano rimasti i segni dei mobili e dei quadri. Solo con la cucina, in città ci avrebbero fatto due o tre miniappartamenti.

Tornammo all'ingresso e salimmo la scala di pietra serena che portava verso l'oscurità del primo piano, seguendo il cono di luce della torcia. Sulle pareti s'intravedevano grosse macchie giallastre. Arrivammo di sopra e Pantano imboccò il corridoio verso sinistra. Gli camminavo accanto trattenendo il respiro. Voltammo l'angolo e ci trovammo in un corridoio più lungo. Dopo una quindicina di passi il maresciallo si fermò davanti a una porta chiusa.

«È successo in questa stanza» disse.

«La donna azzannata?» chiesi, con gli spilli nella nuca. Pantano annuì, poi abbassò la maniglia e spinse la porta. Lo seguii dentro. Il maresciallo andò a spalancare una finestra e la luce entrò di colpo nella stanza, lasciandomi a bocca aperta. La prima cosa che vidi fu il letto matrimoniale, con le lenzuola scompigliate e imbrattate di sangue secco. Dal gancio del lampadario pendeva una corda che finiva in un cappio. Era normale che avessi il cuore un po' accelerato. Il maresciallo invece sembrava perso nei ricordi. Sul pavimento, accanto al letto, spiccava una grande macchia quasi nera. Qua e là c'erano molte impronte di scarpe che avevano camminato sul sangue, e le pareti erano spruzzate di goccioline scure vecchie di trentasei anni. Mi guardai intorno. La stanza era spaziosa e arredata in ogni particolare, non mancavano nemmeno i soprammobili.

«Come dice?» chiesi, accorgendomi che il maresciallo aveva parlato.

«Dicevo che a quanto pare è rimasto tutto come quel giorno». Sembrava stupito.

«Fa un certo effetto» mormorai. Sulle mattonelle di cotto vicino alla porta c'era un'altra chiazza scura, e lì accanto il muro era abbondantemente schizzato di sangue.

«È lì che la signora ha ucciso il cane lupo» fece il maresciallo, intuendo la mia curiosità.

«Ha avuto un bel coraggio».

«È l'ultima cosa che manca a quella vecchia».

Appeso alla parete di fronte al letto c'era un quadro. Mi avvicinai. Era un fiammingo dai colori molto scuri. Una scena all'aperto, con dei pastori. Quell'atmosfera mi catturava lo sguardo, avevo la sensazione di essere dentro il dipinto, ai margini di quel bosco, sotto quel cielo...

«Non me l'appenderei nemmeno al cesso» disse Pantano, dimostrando che ognuno ha i suoi gusti. Ma si sbagliava, era un quadro bellissimo. Me lo sarei appeso volentieri davanti al letto, come avevano fatto i due poveri sposi.

Nella stanza c'era un'altra porta. Il maresciallo andò ad aprirla e illuminò con la torcia una stanza più piccola, completamente vuota. Anche lì, sulle pareti si vedevano i segni dei quadri e dei mobili. Pantano richiuse la porta.

«Andiamo a controllare le altre stanze» disse, con un tono rassegnato. Richiuse la finestra e continuammo il giro. C'erano molti corridoi e decine di porte. Le stanze erano quasi tutte vuote. Ogni tanto si vedeva un armadio, un vecchio materasso di lana buttato per terra, tavolini senza valore. Alla fine dell'esplorazione il maresciallo allargò le braccia.

«Come vede non ci abita nessuno» disse, trattenendo un sorriso.

«Forse ci sono i fantasmi». Mi accorsi che un po' ci credevo. Non riuscivo a trovare nessun'altra spiegazione.

«Non dica coglionate, e soprattutto non le dica in giro» disse Pantano.

«Allora cos'erano quelle voci?».

«Ha ragione la vecchia, sarà stato il verso di qualche animale».

«Le assicuro di no».

«Nella vita ci si può anche sbagliare» fece lui. Non risposi.

Tornammo di sotto. Quando uscimmo dalla villa il sole ci fece chiudere gli occhi. Attraversammo il giardino in silenzio e uscimmo dal cancello. Il maresciallo rimise il lucchetto alle sbarre. Quando aprì la portiera della Panda l'appuntato si svegliò e accennò il saluto militare.

«Alzati e guida, Lazzaro» gli disse il maresciallo. Montammo in macchina e Schiavo fece manovra, con gli occhi arrossati dal sonno.

«Trovato nulla, maresciallo?» disse, per simulare partecipazione.

«Sì, una minchia di niente» fece lui. Mentre scendevamo lungo la strada sterrata una voce alla radio chiese del maresciallo.

«Ti ascolto, Macioce».

«Maresciallo, c'è qui la signora Cianfroni che vuole parlare con lei...».

«Che è successo questa volta?» sospirò Pantano.

«Stamattina ha trovato nel pollaio una ventina di galline con la testa mozzata».

«Sarà stato Jack lo Squartatore» fece il maresciallo, ridendo.

«Che ha detto, maresciallo?» gracchiò la radio.

«Nulla, Macioce. Di' alla signora che sto arrivando».

«Come vuole, maresciallo. Passo e chiudo».

«Che palle» fece Pantano agganciando il microfono, e l'appuntato si mise a ridacchiare. Il maresciallo mi spiegò che la signora Cianfroni era la moglie di un assessore di Montesevero, una donna insopportabile. Se trovava un ragno nel letto andava dai carabinieri a fare una denuncia, e voleva sempre parlare «con il maresciallo in persona». Bisognava accontentarla, perché il marito era molto amico di un generale dell'Arma.

«Che palle» disse di nuovo.

Ero sempre più convinto che le stragi di polli e conigli avessero uno stretto legame con quella figura umana che di notte correva nei campi. Quasi certamente avevo visto con i miei occhi il killer dei pollai. Ma non dissi nulla a Pantano. Avevo capito che non voleva sentir parlare di coglionate.

«Quella cosa dei polli... succede spesso?».

«A periodi. Dev'essere una bestiaccia con la rabbia».

«In paese cosa dicono?» chiesi. Il maresciallo fece ondeggiare il capo.

«Se lo può immaginare...».

«Il lupo mannaro?».

«Appunto».

«Magari è vero».

«Anche se credessi a quelle storielle... Che se ne farebbe un lupo mannaro di qualche gallina?» disse Pantano. L'appuntato si voltò a guardarlo.

«Eh maresciallo, non ci sono più i lupi mannari di una volta» disse, e se la rise da solo. Il maresciallo non mosse un muscolo, sembrava pensieroso. Quando passavamo sopra una buca la sua testa quadrata ondeggiava appena. Notai che gli crescevano i capelli anche sul collo... e immaginai di vederlo correre nudo sotto la luna piena, con le orecchie allungate e il corpo completamente ricoperto di peli neri. Un carabiniere licantropo. Magari poteva essere il colpo di scena finale per Orrore sulle colline.

Arrivammo a casa mia. Prima che scendessi dalla macchina il maresciallo si voltò a guardarmi.
«Mi faccia un favore, dottor Bettazzi. Se vede un marziano che piscia venga a dirlo solo a me, non faccia domande in paese».

«Resisterò alla tentazione».

«Ci conto. Mi farebbe anche un altro favore?».

«Mi dica».

«Devo tornare subito in caserma per via di quella scassaminchia della Cianfroni... Può riportare le chiavi alla signora Rondanini?».

«Nessun problema» dissi, e nello stesso istante pensai a quello che avrei fatto. Il maresciallo mi passò il mazzo.

«Dica alla signora che le darò un colpo di telefono più tardi».

«Sarà fatto». Scesi, e rimasi a guardare la Panda che si allontanava. Contai fino a cento, lentamente. Montai in macchina e partii sgommando sui mattoni.

Arrivai fino alla Chiantigiana, e pigiando sull'acceleratore andai a Siena. Quello che volevo fare era meglio farlo in una città, confuso in mezzo alla gente. Parcheggiai lungo le mura della fortezza e mi avviai verso il centro. Le strade erano affollate di turisti. M'infilai nel primo ferramenta che trovai e feci la copia delle chiavi della villa. Comprai anche una torcia elettrica e diverse batterie, poi tornai di corsa al parcheggio.

Mezz'ora dopo ero davanti alla cascina della signora Rondanini. La finestra a cui si era affacciata Rachele era ancora aperta, ma lei non c'era. Bussai alla porta, più volte. Quando apparve la signora le consegnai le chiavi sorridendo.

«Ha detto il maresciallo che la chiamerà più tardi».

«Ha già chiamato. Come mai ci ha messo tanto a riportare le chiavi?». Aveva le labbra grinzose e dure, sembravano di legno.

«Mi scusi, non credevo che fosse urgente... Sono dovuto andare a Siena per un appuntamento di lavoro» mentii. La signora borbottò qualcosa e fece per richiudere la porta.

«Aspetti...» dissi, senza un motivo preciso.

«Che c'è?». Era allarmata.

«Ecco... È possibile fare un saluto a sua nipote?» improvvisai, con un sorriso amichevole.

«Se ne vada». Mi chiuse la porta in faccia. Stavo per bussare di nuovo, poi lasciai perdere. Montai in macchina. Era quasi l'una. Lungo la strada incrociai il prete su una Giardinetta bianca. Guidava con la faccia attaccata al volante, e alle sue spalle ondeggiava il testone del fedele maremmano. Ero convinto che sulla tragedia della villa lui ne sapesse più di tutti gli altri, ma avevo capito che non avrebbe mai parlato. In paese dicevano che don Staccioni era gentile come un tronco d'albero. E poi il suo cane si chiamava Banzai. Non valeva la pena insistere.

Attraversai Fontenera e proseguii sulla provinciale. Mi venne in mente la Casa del Popolo, con la stella rossa sul tetto e i tristissimi neon, e naturalmente pensai al Nero. Chissà cosa faceva nella vita, se andava a votare, fino a dove si spingeva per cercare una donna. Di giorno poteva uscire di casa o si sarebbe dissolto al sole?

Oltrepassai anche Montesevero. Nel senso contrario vidi passare una macchina olandese. Ogni tanto mi capitava di vedere dei turisti vagare su quelle strade. Avevano sempre l'aria smarrita, come se tra quelle colline cercassero qualcosa che non riuscivano a trovare.

Voltai nella stradina polverosa dove abitava Camilla e avanzai a passo d'uomo. Dietro una curva apparve la grande casa colonica. Come mi aspettavo, la Fiesta non c'era. Meglio così. Parcheggiai vicino alla sua porta. Senza scendere presi un foglietto e pensai alla frase giusta da scrivere: «Posso invitarti a cena?... Vorrei invitarti a cena... Che ne dici di cenare insieme?». Che schifo, dovevo trovare qualcosa di meglio. Ero o non ero uno scrittore? Finalmente mi decisi: «Il lupo mannaro di Fontenera aspetta un segnale dalla bella Camilla». Non che fosse un capolavoro, ma non mi veniva altro. Aggiunsi il mio numero di cellulare, nel caso lo avesse perso. Stavo per andare a mettere il biglietto nella fessura della porta, poi ci ripensai. Accartocciai il foglietto e lo buttai nel portaoggetti. Meglio non essere troppo invadenti. Purtroppo era vero, non esistevano più le donne di una volta. Ormai il corteggiamento era diventato un fastidio, per qualcuna addirittura un insulto. Se piacevi a una donna ci pensava lei a mandare avanti le cose, senza troppi discorsi.

Stavo per mettere in moto, ma cambiai di nuovo idea. Raccolsi il foglietto, lo stirai bene sulla gamba e andai a infilarlo nella fessura della porta. Forse le donne facevano solo finta di non essere più come una volta, e un bigliettino del genere poteva essere una bella sorpresa. Montai in macchina e partii. Dopo un centinaio di metri mi fermai, ingranai la retromarcia e tornai fino a casa di Camilla. Andai a togliere il foglietto, lo accartocciai e me lo misi in tasca. Lo avrei bruciato nel camino.

Mentre scendevo giù per la stradina immaginai Camilla seduta di fronte a me, nella cucina di casa mia, davanti al fuoco che crepitava nel camino... la luce della fiamma ballava sui nostri volti, i nostri sguardi s'incrociavano ogni secondo... Era una notte di luna piena, e dopo il vin santo lei si trasformava in una lupa mannara...
Poteva essere il momento cruciale di Orrore sulle colline. La bella si tramuta in bestia e assale il suo innamorato. Non avevo mai scritto niente del genere, e l'idea di provarci mi attirava. Ma a pensarci bene esistevano molte altre storie possibili. Orrore sulle colline significava che chiunque poteva rivelarsi un lupo mannaro... il maresciallo Pantano, l'appuntato, la Marinella, l'uomo della legna, il contadino con le bretelle rosse, il benzinaio, il sindaco, o magari la signora Cianfroni, che per confondere le acque denunciava il massacro dei polli. Uno valeva l'altro. Bastava solo trovare la persona giusta e portare avanti la storia.

Chissà perché mi ero fissato sui lupi mannari.



(Continua)

 

(La Stampa.it)