Non era Rachele
ma un gigante

«La figura umana che ho visto correre nei campi... è un bestione alto più di due metri».

Sei sveglio?» disse lei.

«Eh? Mi ero distratto».

«Dicevo... riguardo a quelle faccende di cui non voglio assolutamente parlare, mi puoi dire solo una cosa?».

«Dipende...».

«Sei stato a trovare la signora Rondanini?».
«Sì».

«Ci hai parlato?».

«Sì, ma non ho cavato un ragno dal buco».

«Non voglio sapere altro».

«Bene, non parliamone più. Ancora un po’ di vino?».

«Grazie» sospirò lei. Presi la bottiglia e andai a riempirle il bicchiere. Lo sguardo mi cadde in mezzo alle sue gambe, anche perché le teneva leggermente aperte. Sotto la cucitura dei jeans c’era il tesoro, la caverna oscura che muove l’universo. E tutto intorno c’era una donna...

«Ti sei incantato?» sorrise Camilla.

«Controllo la pasta...». Arrossendo corsi a girare gli spaghetti. Ero ancora capace di arrossire, che bello. Tirai su uno spaghetto e lo assaggiai. Erano ancora duri.

«Però ho fatto due chiacchiere molto interessanti con Rachele».

«Ah...».

«Scusa, dimenticavo che stasera non vuoi sentirne parlare».

«Dimmi solo cosa ti ha detto».

«Che anche lei è un lupo mannaro».

«Allora avevi ragione, è Rachele che ammazza le galline» disse lei, tirandosi su.

«No, non è lei. Ho controllato il tetto...».

«Quale tetto?».

«Lascia perdere, ho una notizia molto più interessante».

«Non so se voglio saperla».

«Sì o no? Devi decidere».

«Sentiamo...» fece lei, con l’aria di farmi un favore. In effetti non aspettavo altro, a parte la collezione di farfalle.

«La figura umana che ho visto correre nei campi... non è Rachele».

«Ah, no?».

«No. È un gigante».

«Che?».

«Un bestione alto più di due metri». Le raccontai in due parole come avevo fatto a scoprirlo. Camilla si sdraiò di nuovo.

«Non sei mica normale...».

«Perché?».

«Non fai altro che pensare a quelle storie».

«Che c’è di male? Voglio solo scoprire come stanno le cose... e prima o poi ci riuscirò. Forse è proprio per questo che il destino mi ha fatto arrivare su queste montagne».

«Ah, non per me?».

«Anche per te, certo. Per tutte e due le cose. Il destino è generoso, a volte».

«Non è che stai facendo un corso di seduzione su internet?». Tratteneva a stento il riso.

«Perché?». Ero quasi offeso.

«Be’...». Mi guardava con tenerezza. Era umiliante. Mi affacciai sulla pentola.

«Dev’essere quasi cotta».

«Se parli di me ti sbagli» disse lei. Feci finta di non aver sentito, ma era stata una pugnalata. La prima volta che la scopavo me le pagava tutte. A ogni colpo di reni le avrei ricordato una delle sue battute. Sarebbe stato bellissimo.

Con aria indifferente tirai su uno spaghetto e lo assaggiai. Mancava poco.

«È pasta integrale, devi beccare il momento giusto sennò scuoce» dissi, con aria da grande cuoco.

«Ti avverto, non scopo mai al secondo invito» disse lei. Restai con uno spaghetto a mezz’aria.

«Senti, parliamoci chiaro. Se credi di portarmi a letto con questi trucchi da quattro soldi ti sbagli di grosso» dissi. Forse avevo fatto la battuta più idiota della mia vita. Mi aspettavo una delle sue frasette taglienti, invece dopo un secondo di silenzio... scoppiò a ridere. Allora forse avevo fatto la battuta più bella della mia vita. Scolai la pasta e ci mettemmo a tavola.

«Ti assumo come cuoco personale» disse Camilla, dopo il primo boccone. Ringraziai con un piccolo inchino.

«Sai che il vicesindaco sta cercando disperatamente di comprare la villa con la meridiana?» buttai lì.

«Ah, sì? Come fai a saperlo?».

«Romero, l’uomo della legna». Le raccontai che avevo visto il vicesindaco uscire da casa della signora.

«Questo almeno non è un mistero» disse lei, alzando le spalle.

«Chissà...». Guardai le sue labbra che si appoggiavano al bordo del bicchiere, e quando il vino sparì nella bocca sentii un brivido. Avevo una gran voglia di sentire il sapore della sua lingua, anche con gli spaghetti al pomodoro... ma non sapevo se era il momento giusto. Non restava che provare. Mi alzai, feci il giro del tavolo e mi abbassai su di lei per baciarla. Mi lasciò fare, come se fosse una prigioniera che non poteva ribellarsi. La baciai a lungo, e tornai tranquillamente davanti ai miei spaghetti. Bevvi un bel sorso di vino. Lei mi guardava con il sorriso sulle labbra.

«Comincio a pensare sul serio che sei un degenerato».

«Forse è l’aria di questo paese... Sono tutti un po’ strani».

«Se uno vede tutti strani dovrebbe farsi delle domande importanti».

«Non faccio altro».

«Mi servi un po’ di vino?».

«Con piacere». Le versai il vino.

«Ti avverto che l’alcol non mi fa nessun effetto».

«Ti avverto che non ho mai avuto bisogno di far ubriacare una donna... Mi sa che hai in mente un sacco di stereotipi."

«Siete voi maschi gli stereotipi. Fate tutti le stesse cose per arrivare alla stessa cosa».

«Cambiamo discorso?».

«Basta che non parli di licantropi o di polli sbranati...».

«Certo».

Un minuto di silenzio. La pasta era buona, frutto di esperienza decennale.

«Secondo te chi è quel gigante?» disse lei.

Mi svegliai di traverso sul letto. Camilla se n’era andata verso le due, dopo una serata di chiacchiere e vino. Non avevamo scopato, però ci eravamo dati un sacco di baci. L’ultimo accanto alla sua macchina. Mi sembrava di essere tornato alle medie, ma a dire il vero non mi dispiaceva per niente.

«Dimmi a quale appuntamento scopi, così mi metto l’anima in pace» le avevo detto, prima che chiudesse la portiera.

«Finalmente una domanda sensata» aveva detto lei sorridendo, ma non mi aveva risposto.

Dopo il caffè andai a sedermi davanti al computer, con l’intenzione di fare il mio dovere. Mi ritrovai a giocare a quel maledetto solitario, aspettando che succedesse qualcosa. Dopo un paio di partite sentii una storia che mi girava nella testa. Aprii un nuovo file e cominciai subito a scrivere, senza mai staccare le dita dalla tastiera. Non avevo idea di come sbucassero fuori le parole, mi sentivo più un dattilografo che uno scrittore. A metà racconto mi venne il titolo, Tutina bianca. Alle sei lo avevo finito. Lo stampai e lo rilessi. Non era male. Raccontava di un tipo che veniva preso in giro da una donna. Non mi restava che telefonare a Camilla per invitarla a cena ancora una volta, sperando che accettasse. Era una mossa giusta? Prima di cambiare idea afferrai il cellulare e la chiamai.

«Sono Emilio, ti disturbo?».

«Sto visitando».

«Vengo subito al dunque. Posso invitarti a cena?».

«Anche stasera?».

«Perché no...».

«Ti annoi, tutto solo?»

«Purtroppo il casinò di Fontenera stasera è chiuso, e così ho pensato a te».

«A un invito così non si può dire di no».

«Per che ora ti aspetto?».

«Anche oggi farò un po’ tardi».

«Vieni quando vuoi».

«Ti devo lasciare».

«Ciao».

«Ciao». Nulla di più semplice. Troppo. Mi aspettavo che da un momento all’altro mi richiamasse per dirmi che aveva cambiato idea.

Andai in cucina ad accendere il camino. Sentivo il bisogno di vedere le fiamme. Mi sdraiai sul divano e mi misi a leggere. Dopo un paio di pagine mi posai il libro sulla pancia. Pensavo al gigante. Avrei dato non so cosa per fotografarlo. Così potevo farlo vedere al maresciallo: Eccolo qua il bracconiere, gli avrei detto. Ci sarebbe rimasto come un coglione. C’era solo un problema. Ci voleva una macchina fotografica, magari digitale. A Firenze ne avevo una da poco, a rullini. Forse Camilla...

(Continua)
 

 
 

(La Stampa.it)