E adesso, poveri Mille?
Intervista impossibile con Giuseppe Garibaldi: "L’unificazione d’Italia
è la storia di una sconfitta. E tanti dei miei hanno tradito".

Gerolamo Induno. Garibaldi a Capua.1861.11 marzo 2008. - Ho solo ricordi, ragazzo mio, e dunque tutti ricordi tristi. Se devo esser sincero, l'immagine più vivida che mi rimane di tutta la mia trascorsa esistenza è quella di Anita morente. La rivedo agonizzante, in quel capanno nei pressi della Chiavica di Mezzo, sull'argine sinistro del Po di Primaro. Eravamo reduci da settimane di marce sfiancanti nelle paludi, sempre braccati, sempre più soli, e lei portava in grembo il nostro figlio che non sarebbe mai nato. Più volte avevo cercato di lasciarmela indietro, in un luogo sicuro, ma lei niente. Anche allora, divorata dalle febbri, arsa dalla sete, con già una spuma bianca che le sboccava dalle labbra, mi chiamò a sé e, con l'ultimo rantolo, mi rimproverò: “Tu vuoi lasciarmi!". Chiesi un brodo ai figli dei custodi. Si uccise una gallina ma Anita non riuscì a berlo. Qualche minuto dopo era morta».

Su, Garibaldi, si faccia animo. Non può essere questo l'unico ricordo che conserva di Anita...
«No. È vero, ne ho un altro. Mi ritorna come in sogno. Siamo giovani, combattiamo sul Rio Grande per la libertà dei popoli, Anita ha da poco partorito il nostro primo figlio, lo porta in petto. Ci addentriamo nella selva, quando guadiamo i torrenti io lego il bimbo in un fazzoletto, a tracolla, lo riscaldo con il calore del corpo e con l'alito. Le guide sbagliano a imboccare il sentiero tagliato nella foresta. Ci ritroviamo quasi soli, io, Anita e il bambino. I muli e i cavalli si dileguano. Anita si inoltra nel bosco, mi chiama, ha trovato una radura. Dei soldati della Repubblica vi bivaccano, accanto al fuoco. Siamo salvi».

Garibaldi... Generale Garibaldi?
«Sì?».

Ne valeva la pena?
«Di che cosa?».

Di combattere tanto, di patire tanto per fare quest'Italia.
«Giovanotto, mi stia bene a sentire: se c'è una cosa che non tollero è proprio questa sua domanda, il veleno lento che le scorre nelle vene. Io ho pianto Anita per una vita, continuo a piangerla anche da morto, ho pianto le mie figlie bambine, ho pianto i miei garibaldini uccisi nel sonno sulla spiaggia di Melito, ho pianto i contadini uccisi dai miei ragazzi nella piana di Bronte e ho pianto migliaia, milioni di altri ma non posso tollerare chi calunnia i morti dicendo che in fondo non ne valeva la pena perché tanto tutto va in malora comunque.

«Vede, io sono passato alla storia come generale vittorioso ma la storia dell'unificazione d'Italia è storia di un'unica grande sconfitta. L'Italia per cui tanto farneticammo, combattemmo, morimmo, quando alla fine venne, si risolse in un affare da sensali di matrimoni, e forse perfino da ruffiani, in una bagattella da mercanti che scambiarono la nostra libbra di carne di contro a una partita di legname. Sognammo un Paese giovane, generoso, libero e forte, sognammo una grande Repubblica popolare e ci ritrovammo una piccola monarchia borghese. Ci rimase in mano spenta come una bomba inesplosa, come un'erezione stenta. Questo lo ebbi ben chiaro quando ancora ero vivo, e lo accettai: è il destino di tutte le grandi idee che hanno il cattivo gusto, la cattiva creanza di venire al mondo davvero.

«Ma quello che non potei perdonare fu lo spettacolo di una generazione che invecchiò calunniando la propria giovinezza. Vidi i miei magnifici volontari del '48, del '59 e del '60 che, diventati cavalieri, deputati o senatori del Regno, trascorsero il resto della vita come uomini in fuga da se stessi, affannandosi a proclamare strappi e discontinuità con il loro passato rivoluzionario. Nella terribile lunga durata del "dopo", vidi questi uomini spergiurare i loro innamoramenti giovanili: oramai incapaci di amare, sostennero di non aver mai amato, oramai prostrati dal disincanto sostennero di non aver mai cantato. Invece di raccogliersi in preghiera nel cimitero delle illusioni perdute, li vidi allora disseppellire i morti per ucciderli ancora; li vidi rimanere in vita soltanto per negare di aver mai vissuto. Vidi le mie camicie rosse scolorire al lume del rancore, le vidi invecchiare rimasticando la propria giovinezza. E sputandola come una presa di tabacco.

«Va così, d'accordo: accade dopo ogni rivoluzione. Non si rimane camicie rosse per sempre. E, allora, scenda pure l'oblio su di noi, ma ci sia risparmiato il vostro cinismo. È vero che alla fine, quando l'Italia fu fatta, perfino i rivoluzionari furono poi chiamati a fare i conservatori ma è anche vero che per trent'anni in questa terra del rimorso anche i conservatori divennero rivoluzionari. Per un attimo, grazie alla nostra oltranza giovanile, il Paese delle rovine risorse, il popolo dei morti rinacque. Poi, lo ammetto, subito ricominciò la perpetua ruota di servitù, licenza e tirannia, poi la scena tornò agli uomini gonfi del presente, spensierati dell'avvenire, poveri di fama, di coraggio e di ingegno. Ma i miei Mille sono esistiti e, dovessero anche rimanere soltanto mille nei secoli dei secoli, perfino in una latrina mefitica di ladri e di mignotte, staranno comunque lì ritti a dire che non tutti furono traditori e codardi, non tutti spudorati sacerdoti del ventre in questa terra dominatrice e serva. Ora me lo dica lei se ne valeva la pena. Com'è l'Italia di oggi? Assomiglia a quella che noi immaginammo oppure i miei garibaldini furono solo una torma di agitate che credono ai loro fantasmi?».

Ma... Garibaldi... può giudicare anche lei di lassù...
«No, non posso. Noi defunti abbiano del mondo una visione a breve termine: riusciamo a seguire la vicenda terrestre fintanto che i vivi ci ricordano poi perdiamo contatto, lungo un tragitto di progressivo, irreparabile reciproco oblio. Io ho visto tutto con chiarezza fino alla metà del secolo scorso, ho visto tante cose orribili ma ho anche visto tornare i miei garibaldini sulle montagne negli inverni del '44 e del '45. Poi, però, dopo il '48 dovete avermi dimenticato voi di laggiù perché la vista mi si è offuscata. Perciò me lo dica lei, giovanotto, ora che son passati altri sessant'anni, l'Italia è finalmente diventato quel Paese per cui ci siamo tanto battuti, quella terra di giusti, liberi, generosi e forti in cui i preti badano solo alle cose di Dio, i politici alle cose di tutti, e tutti gli altri custodiscono il passato, benedicono il presente, si gonfiano dell'avvenire come belle bandiere al vento?».

Sì, comandante, sì Garibaldi, l'Italia è quel Paese. Riposi in pace.


Dialoghi immaginari coi grandi del passato

Il colloquio immaginario di Antonio Scurati con un anziano e malinconico Giuseppe Garibaldi, di cui pubblichiamo un estratto in questa pagina, è una delle tre Interviste impossibili live che sono andate in scena ieri all’Auditorium Parco della Musica di Roma con Fabrizio Bentivoglio nei panni dell’Eroe dei Due Mondi (le altre: Galileo di Piergiorgio Odifreddi e Ercole di Walter Siti).

Prodotto da Musica per Roma e Gush, e trasmessa in diretta tv su Raisat Extra e in diretta radiofonica su RadioRai3, la serata ha avviato una serie che intende riproporre la felice esperienza delle Interviste impossibili realizzate negli Anni 70 per la radio da autori come Calvino, Eco, Sermonti, Ceronetti, Sciascia.

Le Interviste impossibili live saranno raccolte in un volume Einaudi che sarà pubblicato a settembre.
 

(La Stampa.it)