Novantasette lucida
fino all’ultimo

Marco Vichi.

Subito dopo pranzo mi sedetti davanti al computer e cominciai a scrivere, tenendo accuratamente il barbuto lontano dai miei pensieri. Ogni cosa a suo tempo. Orrore sulle colline stava andando avanti bene. Ci mettevo dentro tutto quello che avevo immaginato, e mi sembrava più vero di quello che avevo vissuto.

Ogni tanto facevo un pausa e camminavo su e giù per la stanza, pensando al gigante. L’idea che a uccidere Maria Conti fosse stato Angiolino non mi aveva ancora abbandonato... Per non parlare delle stragi di galline. Sarà stato anche un agnellino, ma era soprattutto un ciclope senza cervello, e magari quando s’innervosiva...

Mi era rimasta addosso l’atmosfera del convento, con quel coro che esalava dalle pietre. Se mi fossi rinchiuso in una di quelle celle, chissà cosa avrei scritto.

Appena il portone del monastero si era chiuso alle mie spalle avevo incontrato un contadino sdentato che passava a piedi. Gli avevo chiesto se conosceva Angiolino, e lui si era messo a ridere a tutte gengive.

«Lo conosco, lo conosco».

«Le monache dicono che è tranquillo... lavora nel convento, coltiva l’orto, lava le pentole...».

«È vero, fa tutto lui, ma proprio tutto... Non so se mi spiego».

«Cioè?».

«Le monache saranno anche monache, ma sono anche femmine...».

«Che?».

«S’è mai vista una gallina senza il gallo?» aveva detto lo sdentato ridacchiando, e si era incamminato lungo il sentiero. Mi rifiutavo di credere a una cosa del genere.

Mangiai in cucina davanti al televisore. Su Maria Conti non c’era nessuna novità. Cosa dovevo fare? Andare alla polizia e raccontare di Angiolino? Cercavo di immaginare la scena. Tutti dicono che sia buono e dolce come un cucchiaino di miele, commissario, ma forse in certi momenti diventa aggressivo... E se invece avevano ragione le monache? Se Angiolino era buono come il pane? Vedevo già i titoli dei giornali: Lo scrittore Emilio Bettazzi prende fischi per fiaschi. E se invece... Che palle! Non ne potevo più di tutte quelle domande. Dopo il caffè presi la bottiglia di vin santo e tornai in camera. Accesi una canna leggera, e continuai a scrivere.

Alle dieci e mezzo squillò il cellulare. Lessi sullo schermo Mamma, e sospirai.

«Ciao mamma».

«Ciao tesoro... Ti devo dare una brutta notizia».

«Che è successo?». Mi alzai in piedi.

«Zia Cecilia...».

«Morta?».

«Sì». Era una zia di mio padre, novantasette anni. Tutte le sere come aperitivo beveva un bicchierino di cognac.

«Cazzo, mi dispiace».

«Non dire parolacce, soprattutto di fronte alla zia».

«Ma è morta...».

«Appunto, ora ti vede».

«Come è successo?».

«Bianchina l’ha sentita gemere in salotto e si è precipitata, ma ormai la zia era già morta». La Bianchina era la sua governante, ottantacinque anni. Non poteva essersi precipitata.

«L’avete vista?» chiesi.

«Ci stiamo andando adesso, siamo in macchina».

«Povera zia». Mi era sempre stata simpatica...

Sentii in sottofondo la voce di mio padre che diceva: Dammi quel cazzo di telefono.

«Monta in macchina e vieni a casa» disse.

«Adesso? Non è meglio se vengo domattina? Pronto?».

«Sono la mamma... Se sei stanco vieni pure domani, tesoro...».

«No, deve venire ora» disse mio padre a voce alta.

«Va bene, digli che vengo».

«Dice che viene... Ciao, tesoro».

«Ciao mamma».

Da qualche anno sentivo che mio padre non aveva più nessun potere su di me, e il mio atteggiamento verso di lui era cambiato. Per non deludere la sua necessità di dominio lo accontentavo in tutto, sentendo nello stomaco un benefico senso di libertà. Avevo passato la vita a illudermi di cambiarlo, come un bambino che cerca di afferrare la luna alzandosi sulla punta dei piedi. Adesso invece era bello guardarlo negli occhi e pensare: Mi piaci così, pieno di difetti.

Finii di battere sulla tastiera una frase che avevo lasciato a metà, poi spensi tutto e montai in macchina. Povera zia Cecilia, era da un sacco di tempo che non andavo a trovarla.

Appena arrivai sulla provinciale chiamai Camilla.

«Ciao Mata Hari, dove sei?».

«In un bordello di Bangkok...».

«Purtroppo la cena di domani è rimandata. È morta una vecchia zia di mio padre, sto andando a Firenze».

«Mi dispiace. Quanti anni aveva?».

«Novantasette, lucida fino all’ultimo».

«Che fortuna».

«Magari poteva arrivare a cento».

«Ha sofferto?».

«Non più di qualche secondo».

«Falle una carezza da parte mia» disse lei.

«Grazie».

«Starai via molto?».

«Non so, ti chiamo appena so qualcosa».

«Non importa, ci sentiamo quando torni».

«Come vuoi... Non vedo l’ora di raccontarti cosa è successo».

«Parli della villa?».

«Parlo del gigante. L’ho fotografato».

«Cosa? Ti sento male...».

«Ho fotografato il gigante. Ma pare che sia un bravo ragazzo che ripara le zampe agli uccellini».

«Non ti seguo più...».

«È un trovatello. Sta dalle monache, cura l’orto e spazza le stanze».

«Ma di che parli?».

«Sto parlando del lupo mannaro».

«Eh?».

«Magari è stato proprio lui ad ammazzare quella donna...».

«Lui chi?».

«Nulla, ti spiego quando ci vediamo».

«Forse è meglio, non ho capito niente».

«Nemmeno io» dissi.

«Ah, dimenticavo... Se torni sabato non ci sono».

«Ah, no?».

«Devo andare a Torino per un convegno, torno lunedì».

«Buon viaggio». Perché mi era venuto in mente il barbuto?

«Ora vado, sennò mia mamma comincerà a pensare che sono fidanzata».

«Non sia mai...».

«Ciao».

«Ciao».

«Emilio...».

«Sì?».

«Nulla».

«Dimmi...».

«Nulla, buonanotte».

«Cosa mi volevi dire?».

«Dai, niente...».

«Va bene. Buonanotte».

«‘Notte».

«Ciao».

«Ciao».

«Ciao».

«Ciao» e riattaccò. Cosa mi stava per dire? Un altro mistero, cazzo. Accesi la radio e misi una stazione di musica classica. La strada era bellissima. Non c’era quasi nessuno in giro.

Mi era sempre piaciuta, zia Cecilia. Mi ricordavo bene il suo viso punteggiato di macchioline scure. Anche da vecchia aveva due occhi vispi da ragazzina curiosa. Sembrava sempre sul punto di dire qualcosa di memorabile, e a volte succedeva davvero. Aveva cominciato da ragazzina a partecipare alle sedute spiritiche. Le erano capitate avventure di ogni genere e a volte ce le raccontava, fissandoci con gli occhi sbarrati. Quando ero bambino mi faceva paura.

L’avevo vista l’ultima volta qualche giorno prima di Natale. Ero andata a trovarla un pomeriggio, per portarle un regalino di mia madre. Viveva con la Bianchina, una vecchietta minuscola che camminava piegata in avanti. Non facevano che litigare, ma era un modo di tenersi vive.

Per fare contenta la zia mi ero fatto raccontare per l’ennesima volta una vecchia storia... quando da bambina era andata in trance al posto di una famosa medium, in un antico appartamento vicino a piazzale Donatello.

Era appena finita la Grande Guerra, lei aveva compiuto da poco otto anni. L’avevano mandata a letto presto e si erano riuniti nel salotto grande, intorno a un tavolo tondo. C’era una famosa medium arrivata apposta da Roma. La seduta era appena cominciata. A un tratto la porta del salotto si era aperta ed era apparsa lei, la piccola Cecilia. Aveva la faccia stravolta e gli occhi girati all’indietro. Aveva indicato un uomo: «Tu domani morirai», poi si era fatta la pipì addosso e si era svegliata piangendo. Il giorno dopo quell’uomo era morto, investito da un omnibus...

(Continua)

 
 

(La Stampa.it)