Il vicesindaco?
Un pidocchio rivestito

Restammo in silenzio a fissare il soffitto, spalla contro spalla.

Prego, continui pure» dissi. Chiusi la porta e corsi via facendomi luce con la torcia. Avrei voluto restare per picchiare quel gentiluomo, ma per il momento preferivo incombere come una minaccia misteriosa e difendere le fotografie. Scesi le scale a salti e un attimo dopo ero fuori. Dietro di me non avevo sentito volare una mosca. Montai in macchina e partii. Mentre scendevo giù per la strada mi rimisi l’auricolare. Sentii dei borbottii lontani, dei passi, e finalmente la voce dell’uomo.

«Gli spacco il culo, a quello... lo faccio murare in un pilastro...».

Scoppiai a ridere. Aveva paura, il grande playboy. Almeno per un po’ avrebbe lasciato in pace la bella minorata. Accarezzai la digitale. Avevo fatto una certa fatica a non comunicare con quel tipo a colpi di tae kwon do, ma se nella colluttazione avessi perso la digitale non me lo sarei perdonato. La mia parola contro la sua poteva essere uno scontro ad armi pari, ma quelle foto lo avrebbero abbattuto senza scampo. E poi era bello che non sapesse da chi veniva la minaccia. C’era più soddisfazione. Speravo che la paura dello scandalo gli togliesse il sonno...

Appena arrivai a casa corsi al computer per scaricare le foto. Erano venute benissimo. Nella prima si vedeva la faccia del playboy, nella seconda quella di tutti e due. Sentivo nello stomaco uno strano rimescolio, come se avessi scoperto in quel momento di essere il vendicatore delle donne oppresse. Ero nauseato, ma anche soddisfatto. Adesso finalmente avevo una prova concreta. Povera ragazza. Bella e senza cervello... e i lupi ne approfittavano. Se fosse stata sana di mente avrebbe messo in riga i maschi come soldatini. Mi feci un tè e continuai il nuovo racconto. Scrissi diverse pagine senza staccare le dita dalla tastiera. Alle otto spensi tutto. Era arrivato il momento di andare in cucina ad accendere il fuoco e a preparare la cena.

Camilla arrivò alle nove e mezzo, direttamente da Torino. Era stanca, e ovviamente bellissima. Non ci baciammo nemmeno sulla guancia, ma nell’aria avvertivo una tensione niente male.
«Voglio sapere tutto» disse lei, entrando in cucina. Anche io volevo sapere tutto sul barbuto, ma ogni cosa a suo tempo.

«Dopo l’ultima volta che ci siamo sentiti sono successe un sacco di cose» dissi, tranquillo.

«Comincia dall’inizio».

«Rilassati, abbiamo tutto il tempo». Le passai un calice di vino e Camilla si lasciò andare sul divano con un sospiro paziente. Mi dedicai agli spaghetti, e prima di sederci a tavola misi altra legna nel camino.

Durante la cena le raccontai tutto quello che era successo. Vedere la meraviglia nei suoi occhi valeva mille volte le emozioni che avevo vissuto in quei giorni.

Mi chiese di vedere le foto, e salimmo in camera mia. Finalmente avrei saputo chi era quel brutto ceffo immortalato nel suo letto. Ci sedemmo vicini, su due sedie. A sorpresa aprii una foto del barbuto, e lei si voltò a guardarmi.

«E questa?».

«Ce ne sono molte altre...».

«Ti sembra il momento?».

«Erano nella memoria della digitale che mi hai gentilmente prestato».

«Non l’avevo scaricata?».

«Sembrerebbe di no». Aspettavo con ansia un suo commento. Lei alzò le spalle, indifferente.

«Cancellale pure. Non ha significato nulla per me».

«La storia di una notte?».

«Magari...».

«Cioè?».

«Sei mesi buttati via. Cancellale». Sembrava molto tranquilla.

«Obbedisco». Le cancellai con piacere, anche dal cestino. Un vero sollievo. Mi stava parecchio sul cazzo quel barbuto, non m’interessava nemmeno sapere come si chiamava. Capitolo chiuso. Non volevo sentirne parlare mai più.

Feci scorrere le altre foto sullo schermo, quelle di Angiolino e quelle scattate alla villa. Camilla s’impossessò del mouse e le riguardò tutte, una a una. Si fermò sulla povera demente con il porco.

«Che schifo» sussurrò.

«Lo voglio veder piangere, quel panzone».

«Però anche tu... mica sei tanto normale».

«È tutto quello che hai da dire?».

«Una radio-spia comprata su internet...».

«Ne valeva la pena o no?».

«Certo. Ma se a farlo è l’uomo che sto per scoparmi, un po’ mi preoccupa».

«Non ho mai conosciuto una donna romantica come te».

«Me l’hanno detto tutti».

«Una finezza dopo l’altra...».

«Sei sicuro che a voi maschi serva la finezza per sfogare gli istinti primordiali?».

«No, ma almeno abbiamo il buon gusto di fare finta».

«Non ci riuscite per niente».

«E questo a voi donne dispiace?».

«Forse no». Sentii l’avviamento di un’erezione, e questo per me aveva un grande significato.

Camilla aspettò solo che la baciassi, poi mi spinse sul letto e fece tutto lei. Qualche donna l’avevo avuta, ma una cosa del genere non l’avevo mai vissuta.

Dopo restammo a letto, spossati e contenti. Passandoci una canna ci confessammo quello che avevamo pensato la prima volta che ci eravamo incontrati, davanti alla sua Fiesta in panne.

Lei, Speriamo che non sia un pazzo.

Io, Mamma mia che fica.

Le rivelai che nel bagagliaio tenevo sempre i cavi per la batteria, ma che non volevo perdere l’occasione ecc. Lei disse che aveva capito benissimo che mentivo, per lei i maschi erano libri aperti...

«A proposito, sai che giù dai miei ho letto un tuo romanzo?».

«Ah sì?».

«Ce l’aveva mia madre sul comodino».

«Che libro era?».

«Il ritorno» disse lei.

«Ah...».

«È piuttosto lungo».

«Trecentoottantasei pagine» precisai.

«La copertina è molto bella».

Silenzio.

«Ma... ti è piaciuto?» chiesi, un po’ in ansia.

«Ancora non lo so».

«Come sarebbe?».

«Forse è perché ti conosco di persona, ma...». Lasciò la frase in sospeso.

«Ma?». Ero agitato.

«Non so, ci devo ancora pensare».

«Quanto pensi di metterci?».

«Quanto basta».

«Ah, bene». Lei mi si strinse addosso, e si mise a giocare con i miei peli. Il suo odore aveva un immenso potere su di me. Eravamo rilassati. Mi sembrava il momento giusto.

«Quel tipo con la barba...».

«Dici il bel ragazzo della foto?».

«Secondo te è bello?». Ero già pentito di aver aperto bocca.

«Per te no?».

«Soprattutto non è un ragazzo...».

«Ho conosciuto quarantenni che sembrano suo nonno».

«Io pensavo che avesse superato i cinquanta» mentii.

«Quand’è l’ultima volta che ti sei misurato la vista?». Mi tirò i peli del petto, ma gli eroi non si lamentano mai.

«Ho undici decimi da tutti e due gli occhi».

«Una notizia sconvolgente» rise lei.

«Ricominciamo da capo. Quel tipo con la barba...».

«Si chiama Aníbal, è spagnolo». Ecco, ora sapevo anche come si chiamava. Spagnolo, oltretutto. Non poteva essere di Riccione?

«Insomma quello lì... Che fa nella vita?».

«Perché?».

«Semplice curiosità».

«È un bravissimo pittore».

«Fa le caricature sul Ponte Vecchio?».

«Forse... Però le sue opere sono in tutti i musei d’arte moderna del mondo, Parigi, Berlino, Vienna, Madrid, Tokio, Mosca, anche al Guggenheim di New York».

«Tutto qui?».

«No. L’anno scorso ha esposto al MoMa».

«Accidenti che bravo».

«Ti ho sentito fremere o sbaglio?».

«Mi pizzicava un piede». Ancora bugie, per proteggere la mia dignità. Avevo sperato che il barbuto facesse la guardia giurata o al massimo il commercialista, per non dovermi sentire in concorrenza. Camilla mi passò un dito sul naso.

«Di cognome come fa?» Tanto ormai...

«Bauhas, ma sui quadri si firma solo Aníbal».

«Com’è che non l'ho mai sentito nominare?».

«Perché sei un ignorante».

«Ah, già».

«Devi vedere come gli si appiccicano addosso le donne...».

«Di chi stai parlando?».

«Di mio nonno...».

Pensavo con molta serietà a cose stupide. Non avevo mai avuto una ragazza spagnola. Una portoghese però sì. Nessuna pittrice famosa. Solo Lucia si divertiva a imbrattare qualche tela, e ogni volta pregavo Dio che non me la regalasse. Francesi quante? Da ragazzino mi ero innamorato di un’ungherese che aveva cinque anni più di me, e quando si era sdraiata sul letto ero scappato.

 

 

A che pensi?» dissi, dopo un po’ che stavamo zitti. «A quel maiale con la ragazzina».

«Non succederà più».

«Però è successo».

«La pagherà. Domani vado dal maresciallo». Ero contento che l’argomento fosse cambiato. Restammo in silenzio a fissare il soffitto, spalla contro spalla. L’aria era satura dei nostri odori. Avevo accanto una sconosciuta, e mi sentivo più o meno come quando avevo appena cominciato un romanzo... pronto a qualunque sorpresa. Camilla si alzò per andare in bagno. La guardai attraversare la stanza senza nulla addosso. Bellissima. Eva nel paradiso terrestre, ma con i capelli neri. Quando tornò aveva i brividi di freddo, e mi si appiccicò addosso. Nessuno dei due parlava. I nastri di fumo salivano lenti verso le travi del soffitto, e poco a poco si dissolvevano. Senza che lei mi chiedesse nulla mi misi a raccontare di qualche mia ex, per farmi bello. Percepivo la sua gelosia nel battito irregolare delle lunghe ciglia, e provavo un certo piacere. Poi lei mi raccontò di qualche suo ex, uomini meravigliosi e speciali e belli e simpatici e intelligenti che avevano strisciato ai suoi piedi. Con il sorriso sulle labbra immaginavo di evirarli uno a uno, primo fra tutti il barbuto spagnolo...

Senza rendercene conto dopo un po’ ci ritrovammo di nuovo a parlare dei misteri di Fontenera. Ovviamente nominammo la tragedia che si era abbattuta sulla famiglia Rondanini. «Scoprirò anche cos’è veramente successo in quella villa» dissi, forse un po’ troppo serio.

«Esistono degli psicofarmaci che rimettono in sesto l’equilibrio affettivo» rise lei.

«È più forte di me... devo farlo...».

«Forse anche Hitler aveva in testa questa frase».

«Se posso scegliere, ti preferisco mentre scopi».

«Anch’io, se è per quello».

«Vorresti dire che sparo cazzate?».

«Ora ti sistemo io...» disse lei, salendomi addosso.

«Questa volta è una cosa seria, maresciallo».

«Un altro lupo mannaro?».

«Si ricorda quelle voci che avevo sentito alla villa dei Rondanini?».

«E allora?».

«Ho scoperto cosa sono».

«Sentiamo...» sospirò lui.

«Preferisco parlarne a voce. E poi devo farle vedere una cosa».

«Un’altra volta?».

«Non se ne pentirà, glielo assicuro».

«Lei è speciale per far perdere tempo alla gente, Bettazzi».

«Le rubo solo pochi minuti».

«Faccia il bravo, mi lasci lavorare...».

«Mi sta dicendo che devo andare alla polizia?» dissi, deciso. Pausa di silenzio. Sentii un sospiro.

«L’aspetto... Ma faccia presto che devo uscire».

«Compatibilmente con i limiti di velocità, maresciallo».

«Non faccia lo spiritoso, Bettazzi» e buttò giù. Non era più il carabiniere simpatico e ruspante che mi era sembrato a prima vista. Misi il PC nella borsa e montai in macchina. Quella mattina sul presto ero andato a recuperare i trasmettitori alla villa, per non lasciare tracce. Mi sentivo in una botte di ferro.

Ripensai alla notte con Camilla. Se n’era andata alle tre e mezzo e sarebbe tornata quella sera a cena. Forse le piaceva come cucinavo. Mi sentivo un dio. Le donne possono alimentare allucinazioni di ogni tipo. Per quello sono pericolose. Ma forse era vero, il destino mi avevo spinto sulle colline di Fontenera anche per conoscere lei. Ringraziai Franco, sperando che un giorno mi apparisse per davvero. Lo avrei abbracciato e gli avrei detto quanto mi mancava. Chissà come se la passava, lontano da questo laido mondo.

Entrai nella stazione dei carabinieri e dissi che il maresciallo mi stava aspettando. Schiavo mi indicò una panca di legno addossata al muro dell’ingresso, sotto una carta geografica del Chianti. «Aspetti lì, il maresciallo è occupato». Mi sedetti sulla panca. Schiavo tornò al suo posto in una stanzetta minuscola, lasciando la porta aperta per controllarmi. Si mise a scrivere qualcosa su un computer. Batteva solo con i due indici, ma era più veloce di me. Dopo quasi venti minuti si aprì una porta e apparve il maresciallo. Mi fece cenno di entrare.

«Venga, Bettazzi...». Entrai nell’ufficietto e ci sedemmo. In mezzo a noi, la solita scrivania coperta di fascicoli. Pantano si lasciò scappare un sorriso.

«Ora è convinto che a uccidere quella povera donna non è stato il lupo mannaro?».

«Ammetto di essermi sbagliato».

«Mi fa piacere. Sentiamo l’ultima coglionata...». Non vedeva l’ora di sputtanarmi un’altra volta. Sfilai con calma il computer dalla borsa e lo posai sulla scrivania. Pigiai il tasto dello start. Pantano mi guardava con pena.

«Questa volta cosa mi deve far vedere? Un filmino?».

«Un attimo di pazienza». Aspettai che apparisse il desktop, e con calma entrai nella cartella delle foto. Aprii direttamente la seconda, dove si vedevano le facce di tutti e due.

«Ecco qua i fantasmi della villa». Pregustando l’effetto voltai il computer verso di lui. Il maresciallo guardò lo schermo dilatando le narici. Dopo qualche secondo di fissità cominciò a dondolare la testa, con un sorrisino sulle labbra. Stava dimostrando un certo sangue freddo, ma ero sicuro che avesse accusato il colpo. Non aveva davanti la solita coglionata del fantasioso Bettazzi.

«Aspetto i suoi commenti, maresciallo».

«Dove ha scattato questa fotografia?».

«Alla villa, naturalmente».

«Come ha fatto a entrare?».

«Le sembra questa la cosa più importante?».

«Sa cos’è la violazione di domicilio?».

«Mi scusi, ma è tutto quello che ha da dire?». Mi sembrava di essere in un film comico.

«Quante foto ha fatto?».

«Due». Gli feci vedere anche l’altra. Pantano si alzò e camminò fino alla porta. La chiuse a chiave con calma, e si voltò verso di me. Mi alzai dalla sedia.

«Perché ha chiuso la porta?».

«Lasci perdere questa storia, Bettazzi».

«In che senso?».

«Esistono equilibri che è bene non stuzzicare».

«Le ho portato le prove di un abuso sessuale su una minorenne toccata nel cervello... e lei mi parla di equilibri?».

«Ci sono cose che lei non può sapere, Bettazzi».

«Me le dica lei».

«Il dottor Fallani è persona specchiata» affermò il maresciallo, molleggiandosi sui talloni come il duce.

«Da quella foto non si direbbe».

«So quello che dico».

«Le faccio presente che sta parlando di un maniaco sessuale». Cioè il vicesindaco di Montesevero, il «pidocchio rivestito» che voleva comprare la villa con la meridiana. Era lui che si scopava la minorata. «Si sieda, Bettazzi» disse Pantano, girando dietro la scrivania. Ci sedemmo nello stesso momento. Lui allungò una mano e trascinò il computer verso di sé.

«Cosa fa?» dissi. Non rispose, ma non ci voleva molto a capire cosa aveva in mente. Lo lasciai fare. Strusciò la punta del dito sul touch-pad, cliccò qua e là. Sembrava molto pratico di quelle cose. Alla fine chiuse il coperchio del computer e lo spinse verso di me.
 

(Continua)

 
 

(La Stampa.it)