Il mio babbo
un lupo mannaro

Di Marco Vichi

«Buongiorno» dissi amichevole. Mi lanciò un’occhiata senza rispondere, ma faceva parte del suo modo di essere.

«Piove, eh?» buttai lì.

«No, c’è il sole» fece lui scuotendo la testa. Decisi di arrivare al sodo.

«Mi scusi, lei per caso conosce quella bella ragazza un po' ritardata che va sempre in giro con la mamma?».

«Sì, perché?». Intanto continuava a riempire le ceste.

«Ero curioso di sapere come si chiama».

«Perché?».

«Mi sembra di aver visto una sua foto in una rivista di moda».

«Non diciamo cazzate».

«Vorrei solo sapere come si chiama...».

«Martina» disse lui, finalmente. Non ci avevo sperato.

«Martina... e poi?».

«Innocenti».

«Grazie mille».

«Quando il fico è maturo...» fece lui, lasciando come al solito il proverbio in sospeso. Lo salutai e me ne andai.

Passai dalla cartoleria a comprare una decina di buste imbottite e tornai a casa. Sulla lettera da spedire a inquirenti e giornali aggiunsi il nome della ragazza: Martina Innocenti. Stampai cinque copie, e le firmai con una gioia che mi faceva informicolire i polsi. Le infilai nelle buste insieme ai CD-ROM con le foto. Chiusi le buste e le misi una sopra all’altra sul tavolo, quasi con amore. Prima di spedirle dovevo fare ancora una cosa.

Salvai la foto dove si vedevano tutti e due in faccia su un altro CD-ROM, e me lo misi in tasca. Uscii di nuovo con la macchina. Aveva ricominciato a piovere più forte, e all’orizzonte i lampi rigavano il cielo. Arrivai a Montesevero e parcheggiai di fronte al Comune, un palazzo antico nella piazza principale del paese, proprio di fronte alla basilica. Corsi dentro sotto l’ombrello, ma mi bagnai lo stesso. Alla portineria c’era un ragazzo un po’ scemo, tanto per cambiare. Aveva due lenti spesse come panetti di burro. Gli chiesi dov’era l’ufficio del vicesindaco.

«Primo piano a destra, tutto in fondo» fece lui, con un filo di bava tra le labbra. Sicuramente la sua anima era più bella di quella del dottor Fallani. Salii le scale e voltai a destra. In fondo trovai una porta aperta con scritto accanto Vicesindaco. Mi affacciai dentro. Seduta dietro una scrivania c’era una donna bionda con gli occhiali, sui trentacinque anni. Stava battendo sulla tastiera di un computer. Aveva i capelli lunghi ma un po’ sfilacciati, e un musino da topo che mi faceva un’immensa tenerezza.

«Chi cerca?» mi chiese, alzando la testa.

«Vorrei parlare con il vicesindaco».

«Il suo nome, prego?».

«Emilio Bettazzi».

«Ha un appuntamento?». A quanto sembrava non sapeva nulla delle mie opere.

«No, ma vorrei vederlo lo stesso» dissi. Alla segretaria quella frase non piacque, e si alzò.

«Mi dispiace, ma se non ha un appuntamento credo che sia impossibile». L’ultima parola la pronunciò con una tale devozione al dovere che mi commosse.

«Faccia presente al dottor Fallani che sono qui per la faccenda di villa Rondanini».

«Il dottore mi ha detto di non disturbarlo per nessun motivo».

«Il mio non è un motivo, è un affare molto importante».

«Sì, ma... non so se...».

«Ci provi» dissi. La segretaria rimase immobile per qualche secondo.

«Mi può ripetere il suo nome e il motivo della visita?».

«Emilio Bettazzi. Sono qui per la faccenda di villa Rondanini».

«Solo un attimo...». Si avvicinò a una porta e bussò piano piano. Entrò senza aspettare, sinuosa come un serpente, e sparì dentro. Riapparve dopo mezzo minuto con gli occhi innamorati, come se avesse appena visto Apollo. Un po’ stupita mi fece cenno di entrare. Le regalai un sorriso, come per dire: visto che avevo ragione? Entrai nell’ufficio del vicesindaco. Un bell’ufficio, con l’aria condizionata e le piante nei vasi.

«Buongiorno» disse Fallani placido, senza alzarsi. Aveva un sigaro in bocca e la stanza puzzava.

«Buongiorno». A quanto pareva il maresciallo non gli aveva detto nulla. Aspettai che la segretaria avesse chiuso la porta e avanzai verso la scrivania. Fallani mi fece cenno di accomodarmi. Mi sedetti e accavallai le gambe.

«Dov’è che ci siamo già visti?» mi chiese, arricciando il naso.

«Forse dalla Marinella».

«Sì, può darsi... Tettazzi, se non ho capito male...».

«Bettazzi. Emilio Bettazzi».

«Bene. Mi deve dire qualcosa su villa Rondanini?».

«Esatto».

«Lei chi è di preciso?».

«Un conoscente della signora».

«La vecchia si è decisa a vendere?» fece lui, già contando i soldi.

«Non mi risulta».

«Allora di che mi deve parlare? Non capisco».

«Le spiego subito» dissi, sorridendo. Alla sua destra c’era un tavolino con sopra un computer. Sfilai il CD-ROM dalla tasca e lo appoggiai sulla scrivania.

«Cos’è?» chiese Fallani, unendo le sopracciglia.

«Lo guardi, è molto interessante». Non dovevo picchiarlo, avrei rischiato un processo per aggressione. Ci voleva pazienza. Fallani prese il CD-ROM, si spostò con la sedia a ruote fino al computer e lo infilò nel lettore. Aprì il drive e cliccò su uno dei file JPG. Appena apparve la foto si contrasse. Chiuse subito il file. Rimase immobile per qualche secondo, poi si alzò in piedi e mi fissò con due occhi smarriti e al tempo stesso bellicosi. Per il momento non sembrava che avesse intenzione di dire qualcosa. Mi misi a tamburellare con le dita sul ginocchio.

«Chiariamo subito un particolare. Se mi succede qualcosa, qualunque cosa, quelle foto partiranno automaticamente da un sito nascosto verso gli indirizzi mail della Procura e della polizia».

«Allora... era lei che...».

«Ero io».

«Lei non sa quello che sta facendo» borbottò Fallani.

«Non mi sembra il caso di citare Nostro Signore».

«Lei non sa quello che sta facendo» ripeté lui, ancora confuso.

«Forse no, ma so quello che voglio».

«Cosa?».

«Si sieda» dissi. Lui obbedì. Aveva un’espressione a metà strada tra il rabbioso e il terrorizzato.

«Cosa vuole?» disse a voce bassissima.

«Centomila euro in contanti, in banconote usate da cinquanta».

«Che?».

«Dimenticavo: li voglio subito».

«Lei è pazzo».

«Bene» dissi alzandomi.

«Un momento».

«Centomila euro in contanti. Non ho altro da dire».

«Mi sta ricattando...».

«Bravo». Silenzio. Occhi negli occhi. Sudore abbondante sulla sua fronte. Fazzoletto che asciuga il sudore. Sembrava un western. Mi domandavo se avrebbe ceduto al ricatto.

«Subito non è possibile» disse Fallani, rompendo il silenzio. Aveva ceduto.

«Balle. L’aspetto qui, faccia con comodo» dissi rimettendomi a sedere.

«Cerchiamo di ragionare».

«Sto perdendo la pazienza».

«Ma non so se in banca...».

«Senta, se non ho i centomila qua sopra entro un’ora...».

«Va bene, va bene» fece lui, con la faccia sempre più sudata. Si alzò, s’infilò il cappotto e uscì dall’ufficio. Dopo un po’ si affacciò la segretaria per chiedermi se volevo un caffè.

«Sì, grazie».

Arrivò il caffè e lo bevvi a piccoli sorsi. Accesi una sigaretta. Stavo quasi per mettere i piedi sulla scrivania, poi lasciai perdere. Fuori scoppiavano i tuoni. Il castigo divino, pensai. Appeso al muro c’era un crocifisso, e mi misi a dialogare mentalmente con Gesù. Io gli facevo domande, ma Lui non sapeva cosa rispondere.

Anche se era il Figlio di Dio, la situazione sembrava essergli sfuggita di mano.

 


 

Il vicesindaco tornò dopo poco più di mezz’ora, con una valigetta in mano. Era bagnato come se fosse caduto in mare. Appese il cappotto e si lasciò andare sulla sedia, con aria sfinita. Non era abituato a correre. Prese dalla valigetta una busta di carta piuttosto gonfia e se l’appoggiò sulle ginocchia.

«Distruggerà quella foto?» chiese, a bassa voce.

«Certamente».

«Chi mi dice che non continuerà a ricattarmi per tutta la vita?». Era la classica domanda che facevano nei film.

«Un dubbio più che legittimo, ma non so come aiutarla». In quel momento Fallani aveva lo sguardo meno intelligente della povera demente che si scopava.

«Mi deve giurare che non...».

«I soldi» dissi, ignorando le sue lagne. Lui rimase immobile per qualche istante, a fissarmi, poi appoggiò la busta sulla scrivania e la spinse verso di me. La presi e cominciai a tirare fuori i soldi. Fallani s’imbarazzò, come se avessi tirato fuori l’uccello.

«Li metta via» sussurrò.

«Stia zitto un secondo». Controllai i soldi con calma, e li rimisi nella busta. Non erano poi così ingombranti, duemila foglietti di carta sottilissima. Guardai Fallani con aria tranquilla.

«Mi tolga una curiosità. Perché non va a puttane?».

«Io...». Non riuscì a dire più nulla.

«In fondo la capisco. Dev’essere molto più eccitante trombare una ragazzina demente e trattarla come una puttana».

«La prego...».

«Mi scusi, non volevo turbarla con le mie volgarità». Lui mi fissava, abbattuto. Era la situazione più desolante che avessi mai vissuto. Superava anche quella volta che mi ero svegliato nel cesso di un locale in una pozza di vomito. M’infilai la busta in tasca e mi alzai.

«Ossequi a sua moglie». Uscii dall’ufficio lasciando la porta aperta, senza sentire volare una mosca. Passando davanti alla segretaria le sorrisi. Povera donna, avrebbe subito un duro colpo scoprendo che il suo eroe era un depravato.

Aveva quasi smesso di piovere, e finalmente le nuvole si stavano diradando. Passai da casa a prendere le cinque buste già pronte, e per sicurezza andai a cercare un ufficio postale a Siena. Compilai i bollettini di cinque raccomandate AR. Mi costarono una bella somma, ma ne valeva la pena.

Entrai in un bar, e sull’elenco del telefono cercai Innocenti fra gli abbonati di Montesevero. Ce n’erano quattro, ma solo uno aveva accanto un nome femminile: Cesira. Scrissi l’indirizzo su un pezzo di carta e tornai subito a Fontenera.

Mi fermai in piazza. Chiesi indicazioni a una vecchietta mezza sorda. Non fu facile, ma alla fine riuscimmo a capirci. Di sicuro più che con il maresciallo Pantano. La povera demente abitava in una delle ultime case del paese. Preferivo andarci a piedi. La busta con i soldi di Fallani me l’ero messa sotto il braccio, come se fosse il giornale. Arrivai a casa Innocenti e bussai alla porta. Mi aprì la ragazza scema.

«C’è la mamma?».

«C’è la mamma? C’è la mamma?» fece lei, sorridendo. Alle sue spalle sbucò la madre. Mi sembrò vecchissima.

«Cosa vuole?».

«Solo darle questa, ma deve aprirla dopo che sono andato via». Le misi in mano la busta gonfia di soldi, e lei la guardò senza aprirla.

«Che cos’è?» chiese, sospettosa.

«Lo saprà tra poco».

«Vieni» disse alla figlia, tirandola dentro casa per un braccio.

«Mi raccomando, non parli a nessuno di questa faccenda». Aspettai che la porta si fosse richiusa e me ne andai. Centomila euro. Per guadagnarli avrei dovuto vendere un sacco di libri.

A metà pomeriggio uscii a camminare, per cercare di rilassarmi. Le stradine sterrate erano piene di pozze. Aveva smesso di piovere da almeno un paio d’ore, e il cielo era rigato di nuvole sfilacciate che correvano veloci. Il bosco brillava come se fosse ricoperto di frammenti di vetro.

Non facevo che pensare a quel miserabile di Fallani e allo scandalo che lo aspettava. Sarei riuscito davvero a stroncare per sempre la sua carriera? Ne dubitavo. Certa gente riusciva sempre a rialzarsi. Sarebbe stata più sicura una punizione corporale. Evirazione sulla pubblica piazza, alla faccia di Beccaria e di Manzoni.

Mancavano diverse ore all’appuntamento con la signora Rondanini. Avrei preferito andarci di giorno, in quella casa, ma dovevo accontentarmi. Chissà se la vecchia sarebbe stata meno diffidente, di notte. È vero che avevo insistito, ma alla fine era stata lei a dirmi di andare a casa sua a mezzanotte. O forse era solo un espediente per mandarmi via, e davanti alla porta avrei trovato il contadino bretelle rosse con la doppietta in mano...

Pensai ad altro. A Camilla nuda nel mio letto, con gli occhi sorridenti e le labbra socchiuse dopo un bacio. Quella era vita. A mezzanotte invece sarei andato a bussare alla casa dei morti.

Feci un lungo giro, e quando vidi il sole che s’immergeva in un lago arancione tornai verso casa. Ci arrivai che era quasi buio.

Mangiai una pasta davanti alla TV, e dopo cena cercai di scrivere un po’. Ma quella sera non veniva fuori nulla che mi piacesse, e rinunciai quasi subito. Tornai in cucina e accesi il caminetto. Mi stravaccai sul divano, davanti a un talk show con i soliti politici invecchiati sulle solite poltrone. Un sacco di discorsi per difendere privilegi personali, non sentivo nient’altro. Chi vinceva le elezioni faceva grandi sorrisi e stappava champagne. Non sarebbe stato più giusto fare una faccia preoccupata per le grandi responsabilità in arrivo? Ma era come desiderare che il mondo fosse quadrato, o pensare che a Fontenera non esistessero personalità insolite.

Alla prima pubblicità cominciai a saltare da un canale all’altro, alla ricerca di qualcosa di interessante che riuscisse a farmi passare il tempo. Non trovavo nulla, e il tempo non passava mai. Guardavo l'orologio ogni cinque minuti come se a mezzanotte avessi appuntamento con Camilla, e m’imposi di non farlo.

Ipnotizzato dalle lingue di fuoco pensai a Franco, ridotto in cenere come legna bruciata. Dov’era in quel momento? Esisteva ancora qualcosa di lui, oltre al ricordo di chi gli voleva bene? Mi ricordai della prima volta che lo avevo visto, a casa di un’amica a Castiglioncello. Mi avevano colpito i suoi occhi, buoni ma consapevoli. Eravamo diventati subito amici.

Il tempo scorreva troppo lentamente, e il ticchettio dell’orologio a muro non aiutava a farlo passare. Decisi di uscire. Arrivai a Fontenera, e la macchina mi portò davanti alla Casa del Popolo. Spinsi la porta e socchiusi gli occhi per via dei neon. C’era più gente dell’altra volta. Solo maschi. Vecchi che discutevano davanti a un bicchiere di rosso e ragazzotti silenziosi attaccati ai videogiochi. Mi appoggiai al banco e ordinai una birra. Un grosso orologio polveroso appeso sopra una fila di vecchi fiaschi segnava le undici e dieci. Cinquanta minuti all’impatto con la Rondanini.

Sotto al chiacchiericcio che rimbombava nello stanzone mi sembrò di sentire uno schiocco, poi subito un altro. Guardandomi in giro notai una porta socchiusa con scritto sopra a pennarello rosso: Biliardo. Pagai la birra e andai a sbirciare dalla fessura. Quello che vidi aveva qualcosa di mitico...

Una luce bianca illuminava il panno verde lasciando il resto della stanza in penombra, e avvolto da una nuvola di fumo denso il Nero stava giocando a carambola contro se stesso, con lo sguardo da eroe romantico. Appeso alla parete dietro di lui c’era un cartello: VIETATO FUMARE.
 

 

Aspettai che tirasse, e sentii il rumore di una palla che finiva in buca con violenza. Aprii la porta e m’infilai dentro. Mischiato al puzzo di fumo si sentiva un certo odore di stalla. Il Nero era vestito come l’altra volta, interamente di pelle nera. Mi lanciò appena un’occhiata. Girò intorno al biliardo, si chinò in avanti, prese la mira e fece partire il colpo... Un’altra palla in buca. Mi sembrava di vederlo sorridere con gli occhi. Finalmente mi guardò.

«Non ti sei ancora stufato di stare in questo buco di culo?».

«E tu perché ci stai?».

«Non c’entra un cazzo, io ci sono nato». Si piegò di nuovo sul tavolo, e con un colpo tranquillo mandò in buca una boccia verde. Quando si rialzava, la sua faccia usciva dal cono di luce e spariva quasi nel buio. Ero finito in un film americano degli anni Quaranta, mi sembrava quasi di vedere in bianco e nero.

«Ti posso chiedere cosa fai nella vita?».

«Non capisco perché». Un’altra boccia in buca.

«Era solo per fare due chiacchiere».

«Nessuno pensa a com’è bello stare anche un po’ zitti, ogni tanto». «Hai ragione».

Restammo in silenzio. Lui giocava e io guardavo, reggendo in mano il bicchiere. Gli schiocchi delle bocce erano l’unico nostro punto di contatto. Finii l’ultimo sorso di birra, andai a prenderne altre due e tornai nella stanza. Appoggiai un bicchiere sul bordo del tavolo. Il Nero piegò appena le labbra.

«Grazie...».

«Di niente».

«E tu che fai nella vita?».

«Scrivo». Come sempre, mi sentii un po’ in imbarazzo, come se in realtà non fosse un vero lavoro.

«E cosa scrivi?».

«Romanzi, racconti...».

«Ah, sei uno scrittore».

«Così dicono».

«Mica male». Prese il gessetto e lavorò la punta della stecca. Dopo un altro sorso ricominciò a buttare palle in buca. Non ne sbagliava una. Mi piaceva stare lì a guardare, era riposante. Mi piaceva soprattutto quel tavolo verde schiacciato dalla luce bianca dei neon, con il fumo che vagava lento in lunghi nastri. Mi stavo rilassando. L’unico pensiero che mi teneva in ansia era l’appuntamento con la vecchia Rondanini. Mi avrebbe aperto la porta?

«Ti piace leggere?» dissi.

«Mi piace tutto». Aveva finito le bocce. Prese in mano il bicchiere e si sedette di sbieco sul bordo del biliardo. Accese una sigaretta strusciandosi un fiammifero sui pantaloni. Continuavo a domandarmi cosa ci facesse uno come lui su quelle colline. Ma in fondo preferivo non saperlo.

«Hai sentito parlare del mostro che stermina i pollai?».

«Sarà qualche matto, ce ne sono molti da queste parti».

«Conosci le Rondanini?».

«Qua intorno è quasi tutto della vecchia». Fece il giro delle buche per tirare fuori le bocce, e le sistemò sul tavolo con il triangolo. Al primo colpo mandò in buca due palle. Guardai l’ora. Mezzanotte meno venti. Era il momento di muoversi.

«Mi sa che vinci anche questa partita».

«Ti va di fare una partita?».

«Devo andare».

«Una donna?».

«Diciamo di sì».

«In bocca al lupo».

«Mannaro?» dissi sorridendo.

L’aria della notte era fredda, e dopo i venticinque gradi del Circolo sentii un brivido nella schiena. Montai in macchina, chiusi le sicure e partii. Il cielo era pieno di stelle, e la luna sottile sembrava un taglio.

A mezzanotte meno cinque parcheggiai davanti a casa Rondanini. Spensi i fari e scesi, respirando piano. La finestra di Rachele era chiusa, e dalle stecche della persiana non filtrava nessuna luce. Mi avvicinai alla porta. Ero un po’ in anticipo ma bussai lo stesso, piano piano. Silenzio. Aspettai qualche minuto. Ormai ero convinto che quella porta non si sarebbe aperta. Ero stato un ingenuo a credere a quell’invito. Provai lo stesso a bussare un’altra volta. Nulla. Non mi piaceva stare là fuori con quel buio, e mi avviai alla macchina dandomi del coglione... in quel momento sentii alle mie spalle il solito rumore di serrature e paletti, e mi voltai. La porta si aprì, e appena illuminata dal chiarore della madonnina apparve la signora, involtata in uno scialle di lana scuro. Tornai indietro, contento di quella sorpresa. Ma avevo un brutto presentimento, e in fin dei conti non mi sarebbe dispiaciuto andarmene via.

«Buonasera, signora».

«Parli piano» bisbigliò lei.

«Mi scusi...».

«Venga». Sparì dentro lasciando la porta aperta. Entrai in casa e la seguii lungo il corridoio buio, fino alla sala che conoscevo. Come al solito c’era solo una lampada fioca in un angolo, e a dominare era la penombra. Nel silenzio si sentiva il ticchettio della pendola. Ci sedemmo uno di fronte all’altra, fissandoci negli occhi.

«Cosa deve dirmi?» fece la signora, impaziente.

«Signora Rondanini, vengo subito al dunque... ma la prego di dirmi la verità». Presi fiato, mentre lei mi fissava con due occhi di porcellana.

«A uccidere sua nuora non è stato Buch...» dissi a sorpresa. Lei si irrigidì e dilatò appena gli occhi, senza dire nulla. Anzi la sua bocca era dura come se non volesse parlare mai più. Non potevo andarmene a mani vuote. Continuavo a ripetermi che dovevo farlo per aiutare Rachele... ma forse ero solo dominato da una curiosità morbosa che non riuscivo a controllare.

«Se non è stato il cane...» dissi, guardandola negli occhi. Lei non parlava. A un tratto vidi alle sue spalle la porta che si apriva. Sbucò fuori il viso di Rachele, strizzato nel solito fazzoletto. La signora non se n’era accorta e feci finta di nulla.

«Non è stato Buch... vero?» sussurrai, sperando di smuovere la signora. Lei continuava a fissarmi con lo sguardo duro. Stavo per dire ancora qualcosa, ma in quel momento Rachele s’infilò nella stanza e andò a sedersi accanto a sua nonna.

Mi aspettavo che la signora le urlasse di tornare in camera sua, invece si limitò a lanciarle uno sguardo addolorato. Negli occhi di Rachele non c’era il tormento che conoscevo, anzi sembrava tranquilla. «Nonna, tu lo sai chi è stato... Anche io l’ho visto».

Sentii una vampata di calore nella testa. La signora continuava a fissare sua nipote, con uno sguardo desolato. Non era più la donna dura e legnosa che avevo sempre visto. Si alzò in piedi, prese Rachele per un braccio e la tirò dolcemente... e lei si lasciò portare via senza resistenza. Uscirono, e la porta si richiuse. Non sapevo cosa fare. Non mi piaceva quella sala buia. La pendola suonò il quarto, facendomi sobbalzare. L’eco di quel tocco stava girando ancora fra i mobili antichi, quando mi arrivò alle orecchie un pianto lamentoso. Durò solo pochi secondi, e non riuscii a capire se era la nonna o la nipote. Poi il silenzio... Tic... Tac... Tic... Tac... Tic...

Vidi la porta che si riapriva e mi alzai in piedi. Apparve Rachele. Si mise a sedere nello stesso posto di prima e mi piantò gli occhi addosso. Mi sedetti anche io. Rachele continuava a fissarmi. Aveva le labbra umide, e un sorriso che faceva paura. Per la prima volta notai che aveva una bella bocca. Provai a immaginarla mentre staccava la testa alle galline con un morso, e non ci trovai nulla di strano. Subito dopo mi venne in mente il ragazzo tedesco. Nessuno aveva mai scoperto chi lo aveva ammazzato...

«Hai visto tutto... vero?» dissi, cercando un tono dolce.

«Sì».

«Ti eri nascosta sotto il letto?».

«Sì».

«E chi è stato a...». Non riuscii a continuare.

«È stato il babbo» disse Rachele con la voce da bambina.

«Eh?».

«È stato il babbo... Voleva mangiare il fratellino che la mamma aveva nella pancia» disse con la solita voce, come se fosse la cosa più naturale del mondo. Scoprì i denti e imitò il ringhio di un cane. Cominciai a sudare. Non volevo credere a quello che avevo appena sentito, era solo il delirio di una povera matta.

«E perché voleva... mangiarlo?» riuscii a dire, senza più saliva.

«Il babbo era un lupo mannaro» disse dondolandosi sul busto. Quella voce da bambina mi agitava più di tutto il resto.

«Volevi bene al tuo babbo?».

«Tanto tanto tanto» fece lei sorridendo, e s’infilò il pollice in bocca. Mi sentii informicolire le braccia, ma cercai di dominarmi. I lupi mannari non esistevano, era solo una leggenda popolare.

«Tuo babbo non può aver fatto quella brutta cosa».

«Il mio babbo è un lupo mannaro» ripeté lei con la voce da bambina arrabbiata.

«Certo, lo so bene...» Dovevo stare calmo, non c’era nulla di strano. Era solo una povera malata che sragionava imitando la voce di una bambina. Regressione, dicevano gli psicanalisti. Erano cose risapute. Anche il raptus era un fenomeno conosciuto... ma se Rachele avesse provato a saltarmi addosso mi sarei difeso. Nonostante quei pensieri rassicuranti continuavo a non sentirmi bene. Era tutta colpa di quella sala buia disseminata di ombre.

A un tratto percepii un movimento e mi voltai. La signora Rondanini era lì, in piedi nel vano della porta, immersa nell’ombra. Non sapevo da quanto tempo ci stesse guardando.

«Vorrei parlare un minuto con tua nonna» dissi a Rachele, alzandomi in piedi. Lei incrociò le braccia sul petto e si mise a mugolare una canzoncina. Quando mi voltai verso la porta, la vecchia non c’era più. «Signora Rondanini...» chiamai a voce alta. Attraversai la sala e mi affacciai fuori, senza perdere di vista Rachele. In fondo al corridoio buio vidi una luce fioca filtrare dalla fessura di una porta. Bussai. «Signora Rondanini...».

«Entri» disse lei. Spinsi la porta. La signora era seduta in una poltrona al buio, davanti al caminetto acceso. Guardava le fiamme con gli occhi arrossati.

«Chiuda la porta» disse. Andai a sedermi nella poltrona accanto alla sua. Mi feci coraggio.

«Un minuto fa sua nipote mi ha detto...».

«Sssst» fece lei senza guardarmi.

(Continua)
 

 

(La Stampa.it)