Cantautori la strana voglia
di romanzo
Librerie piene di opere di musicisti non sempre all'altezza delle canzoni.

15 aprile 2009.- Uomo dalle molteplici rivoluzioni, Mauro Pagani. Ha conquistato il mondo con la Pfm, stanato Fabrizio De André in Creuza de mà. Le sfide lo esaltano.

L’ultima, vinta pure questa, è Foto di gruppo con chitarrista. Un bel romanzo, edito da Rizzoli. Gli anni Settanta - «che non sono stati soltanto di piombo» - visti dall’ottica di Sonny, musicista che attraversa la Milano non ancora da bere da piazza Fontana fino al funerale di Demetrio Stratos. Evidentemente la Pfm porta bene. Anche Franz Di Cioccio, ora con Riccardo Bertoncelli e ora con Guido Harari, ha scritto libri riusciti. Nel suo caso si trattava però di biografie, prima Battisti (Sulle corde di Lucio) e poi De André (lo straordinario Evaporati in una nuvola rock).

Il romanzo è ben più insidioso. Ci hanno provato in tanti, riuscendoci in pochi. Si è salvato Ligabue, che prima di approdare al fantascientifico (La neve se ne frega) e alle poesie (Lettere d’amore nel frigo), aveva firmato l’ottimo Fuori e dentro il borgo, da una cui costola è nato Radiofreccia (già, i musicisti si scoprono anche registi, con esiti quasi sempre in stile Musikanten di Battiato: meglio evitare). Il libro sembra congeniale ad artisti controcorrente, dal Massimo Zamboni sperimentale di Emilia Parabolica al Giulio Casale di Intanto corro (racconti) e Se ci fosse un uomo (il miglior saggio su Giorgio Gaber). Lodi trasversali hanno poi ricevuto Davide Van Sfroos (Le parole sognate dai pesci) e - un po’ meno - Cristiano Godano con I vivi.

Per i cantautori sembrerebbe naturale passare dal verso alla pagina, ma non era un caso se Rino Gaetano parlava di «più prosa che poesia». Francesco De Gregori e Ivano Fossati (al di là del divertissement Il giullare) si sono ben guardati dallo scrivere romanzi. Roberto Vecchioni produce libri dal 1983 e, considerando la sua dittatura del testo (dotto) sulla melodia (pressoché inesistente), parrebbe per questo avvantaggiato, ma della sua numerosa produzione - da Viaggi del tempo immobile a Il libraio di Selinunte - si sono accorti più che altro i fedelissimi. Grande successo di vendite ha avuto Francesco Guccini, sontuoso burattinaio di parole, ma i suoi libri più autobiografici (Croniche epafaniche, Vacca d’un cane) trasudano ampollosità; senz’altro più gradevole la saga scritta con Loriano Macchiavelli.

Guccini è un caso estremo, per lui «i libri sono ormai l’attività primaria». Per altri, sono una tassa, un obolo: il fiorino di Non ci resta che piangere. Cristina Donà (con Michele Monina) non convinse in God Less America, meno ancora Manuel Agnelli ne Il meraviglioso tubetto (che di meraviglioso aveva ben poco). Apparve imbarazzante Rock Notes, diario adolescenziale di Drigo, chitarrista dei Negrita. E Giovanni Lindo Ferretti, uno che le parole ha saputo usarle come pochi, trasformò il suo Reduce nel più integralista dei cantici teo-con.

È opinione comune che il paroliere più ispirato sia oggi Vinicio Capossela, ma il suo Non si muore tutte le mattine è una farraginosa centrifuga di trovate geniali e riferimenti solipstici: tradotto, quasi illeggibile. Il libro è una brutta bestia, brucia anche i grandissimi. E così il fallimento più rovinoso è toccato proprio a Fabrizio De André, incapace come Dylan (disastroso in Tarantula) di ingranare la quinta marcia del romanzo: Un destino ridicolo, scritto con Alessandro Gennari, tutto è fuorché irrinunciabile.

Alla fine, gli episodi migliori vanno cercati col lumicino, lontani dai riflettori. È il caso di Gianfranco Manfredi, ormai scrittore (e fumettista) a tempo pieno: Magia rossa, Il peggio deve venire. E poi c’è poi Sergio Endrigo, che prima di morire firmò Quanto mi dai se mi sparo?: un j’accuse irrinunciabile, una goccia di splendore in un mare di parole rinunciabili. Forse è meglio se, salvo rari casi, i cantanti si limitano a cantare. E a volte neanche quello.

 

(La Stampa)