Un mito in...bottiglia
La Coca Cola e Babbo Natale. Di Claudio Bosio.

18 dicembre 2008. - L’immaginario collettivo si raffigura Babbo Natale come un omino gioviale e rubicondo, dalla barba bianca, con un bel pancione che tracima oltre i bordi di pelliccia bianca della sua giubba rossa. È impossibile dargli un’età: non si può dire sia un giovincello, ma nemmeno un vecchietto: certo è che sprizza buonumore, simpatia, serenità e gioia. Ci sembra esista da secoli, anche se sappiamo bene che la sua figura è diventata popolare solo in tempi recenti, da quando cioè si è fatta icona dell’attuale Natale, consumistico e scristianizzato.

Ma, forse, non tutti sanno che il Babbo Natale del nostro immaginario, ha a che fare, soprattutto, con la Coca Cola.

Babbo Natale è approdato in America, a New York, nel XVII secolo.

Nel Nuovo Mondo, quello che (secondo una tradizione maturata per oltre mille anni) era stato San Nicola, il vescovo di Mira (nell’attuale Turchia) cioè un “Porta-doni” natalizio, si è progressivamente trasformato, sino a divenire un potente simbolo del mondo dei consumi. In questo processo di “americanizzazione” di San Nicola, il ruolo della Coca Cola è stato fondamentale. Vediamo come e perché.

La riscrittura di San Nicola-Santa Claus ad opera della Coca Cola fu, del tutto incidentalmente, dovuta al dr.Harvey Washington Wiley, addetto al Dipartimento di Chimica degli Stati Uniti, già noto per aver dato vita (nel 1902) alla cosiddetta “Squadra del veleno”. Si trattava di un gruppo di ragazzi, che venivano utilizzati come cavie umane, ai quali venivano somministrati degli additivi alimentari sospettati di essere nocivi. L’anno successivo, Wiley fece partire una crociata salutista che sfociò in un procedimento giudiziario nei confronti della Coca Cola: «Gli Stati Uniti d’America contro 40 barili di Coca Cola», Questa azione legale, era connessa con il sequestro di alcuni barili di Coca Cola, disposto da Wiley nel 1907. L’Azienda di Atlanta, si trovò a subire una campagna denigratoria alla quale avevano aderito, con fervore quasi paranoide, i più svariati Movimenti, Associazioni ed Opinionisti dell’epoca: Martha M. Allen, responsabile in capo del movimento delle Donne per la Temperanza Cristiana («So per certo di un giovanotto che è diventato una vera nullità a causa della sua abitudine alla Coca Cola»); il metodista George Stuart («Si è saputo che l’uso di Coca Cola ha portato in una scuola femminile a deprecabili festini notturni. In più la bibita tiene svegli i ragazzi esponendoli alle tentazioni della masturbazione») a cui si accompagnava una nutrita schiera di cronisti dalla penna facile o semplici approfittatori pronti a giurare che la Coca Cola conteneva cocaina (non ce n’era più traccia a partire dal 1903), conteneva pericolose quantità di alcol, di caffeina, di oppio, di imprecisate e terribili sostanze velenose. Il processo (spettacolare!) fu celebrato a Chattanooga. L’accusa contestava alla bibita di essere adulterata con sostanze pericolose (nello specifico la caffeina) e di avere una denominazione ingannevole([1]). Ergo: La Coca Cola era in realtà il più grande spacciatore di droga del pianeta. Il tribunale di Chattanooga fu inondato da una marea di sovraeccitate deposizioni “pro” e “contro”, le une che dipingevano la Coca Cola come un letale distillato demoniaco, le altre come presenza immacolata in un mondo di avvoltoi. I giornali, che seguivano il dibattimento non mancarono di soffiare sul fuoco; l’Atlanta Georgian, ad esempio, titolava: «Otto Coca Cola contengono abbastanza caffeina da uccidere». Chimici e farmacologi presentarono dettagliatissime deposizioni tecniche che mandarono ancor più, se non definitivamente, in tilt i membri della giuria popolare. Dopo una pletora di discussioni e di contro-discussioni, avendo versato fiumi di inchiostro, il giudice Edward Terry Sanford pose fine alle diatribe ordinando, praticamente, alla giuria di riunirsi e di tornare in aula con …. un verdetto favorevole alla Coca Cola!. Fu così che la bibita dalle 1000 bollicine non rischiò più di essere ritirata dal commercio né fu costretta a rivedere la sua formula.

Tuttavia, un cambiamento venne adottato dalla Coca Cola e questo digradava la strategia pubblicitaria dell’azienda. Durante il processo, infatti, gli avvocati difensori della Coca Cola non avevano contestato gli effetti negativi della caffeina sui giovanissimi ma avevano però cercato di aggirare l’ostacolo dichiarando che i più piccoli non erano consumatori abituali della bibita. Fatto, questo, in netto contrasto con le pubblicità del periodo, che ritraevano bambini intenti a bere Coca Cola insieme ai genitori. (Va rilevato che, dopo il 1911, fu proibito l’utilizzo di materiale pubblicitario in cui ci fossero bambini di età inferiore a dodici anni nell’atto di bere Coca Cola). La possibilità di perdere una fetta fondamentale di consumatori, era, per la Coca Cola, un fatto assodato cui bisognava porre rimedio.

Siamo nel 1931: la Coca Cola cambiò strategia di vendita. Si trattò di un cambiamento epocale: la bevanda, che fino allora, era servita nei bar, poteva adesso essere acquistata in confezioni casalinghe, da conservarsi cioè nei frigoriferi domestici. Decisivo in questo senso, per i fatturati aziendali, furono le casalinghe, il vero esercito di donne che ogni giorno si recano a fare la spesa. L’Azienda si rese per altro conto che l’incremento dei consumi-casalinghi era cospicuamente dovuto ad una categoria di persuasori misconosciuti ma capaci di orientare gli acquisti alimentari delle massaie: i loro figli.

Pertanto, era opportuno concepire una campagna pubblicitaria in grado di «rivolgersi ai bambini senza mai metterli al centro della scena».

Il compito fu commissionato ad un bizzarro disegnatore di origine svedese, Haddon Sundblom, noto per essere un impenitente ed inguaribile ritardatario, ma anche per la forza ed originalità del suo segno grafico. Haddon maturò l’idea di creare un personaggio che agisse come intermediario tra il mondo dell’infanzia e quello degli adulti e che, nel contempo, fosse in grado di attrarre l’immaginazione dei bambini. La scelta cadde appunto su Santa Claus. Questo personaggio, già dal 1862, era stato disegnato da Thomas Nast per Harper’s Weekly come un omone con pancione e barba bianca. Il colpo di genio di Sundblom consistette nel far coesistere quel quid di soprannaturale che circondava la figura di Babbo Natale con la corporeità di un uomo comune. Sundblom utilizzò come modello, realmente!, l’uomo della porta accanto, vale a dire il suo vicino di casa Lou Patience, un commesso viaggiatore che madre natura aveva fornito di una corporatura robusta, un volto allegro e che ostentava, al solo vederlo, fiducia vitalità. Al Lou Pantience reale, Sundblom portò cambiamenti assai esigui: gli allungò la barba e gli arroventò le guance, ne aumentò il girovita, e ne sostituì gli abiti borghesi con la casacca biancorossa di prammatica. Ne venne fuori una figura al limite dell’iperrealismo: un essere in carne (molta!) ed ossa eppure dalle sembianze in qualche modo extra-terrestri.

Il così-rifatto Santa Claus sbarcò in Europa subito dopo la fine della seconda guerra mondiale e fu salutato con sospetto. (Tra i vari casi di “resistenza”, il più importante rimane quello di Lévi-Strauss, nel suo prezioso saggio Babbo Natale giustiziato , che si riferisce ad un fatto di cronaca verificatosi in Francia nel 1951).

Tuttavia è inconfutabile che Santa Claus sia diventato di anno in anno sempre più gradito e popolare.

Per noi Italiani, ormai, la figura di Babbo Natale fa parte del nostro stile di vita: la abbiamo accettata e basta. Tutt’al più convive con l’antica tradizione del presepio, la cui origine ci riporta al più italiano dei santi: San Francesco.

Pochi di noi si chiedono dove, quando e da chi “nacque” Babbo Natale.

A pensarci bene, la storia di questo personaggio che allieta il nostri Natali ha dell’incredibile: un omino allegro e rubicondo, nato in Turchia, e ringiovanito in USA ,mediante un intervento di chirurgia estetica, ha conquistato il mondo, facendo pubblicità …. alla "bibita del diavolo" !

Incredibile, ma vero.