L'urlo sdoganato,

un'analisi dei talk-show

L'opinione di uno psichiatra.
Di Stefano Bolognini*

20 agosto 2010. - L’urlo, la maleducazione, la mancanza di cultura erano un tempo ritenuti elementi comunque negativi, dei quali in linea di massima ci si vergognava e che si cercava di dissimulare riservandoli semmai al privato più inaccessibile. Nell’epoca corrente, nella quale la linea di confine tra la disinibizione e la violenza si è fatta più confusa che sottile, assistiamo ad un clamoroso cambiamento di valori: all’importanza dell’etica (basata sulla distinzione fondamentale tra ciò che è buono e ciò che è cattivo) si è sostituito il primato dell’estetica fallica, con la valorizzazione compiaciuta e applaudita di ciò che produce un effetto potente di affermazione di sé e di sottomissione dell’altro.

Si potrebbe dire che è in atto uno sdoganamento strisciante e «culturale» della violenza come fattore legittimo di affermazione di sé: la violenza in questione, infatti, trova il suo solo limite efficace nel codice penale, nel senso che se si delinque in modo accertabile si può subire una reazione da parte della giustizia. Per aggirare quest’ultimo ostacolo si sono escogitate allora una quantità di tattiche intermedie, al limite del lecito, per avere ragione. Avere ragione riguardo a qualcosa? Apparentemente sì; ma in realtà si tratta di «aver ragione di» qualcuno. Cioè sottometterlo, batterlo, annullarlo.

Le moderne arene sono i talk show: in esse assistiamo ad un duello in cui i contenuti delle comunicazioni (i pensieri) sono di importanza secondaria. Ciò che conta veramente è l’effetto di prevalenza di un contendente sull’altro in base alla quantità di suoni emessi, al tono e alla coloritura espressiva, alla deformazione caricaturale della figura dell’altro e alla valorizzazione della propria, alla convocazione più o meno sapiente del consenso attraverso stimoli di facile presa e di pronto effetto seduttivo. Il pubblico è invitato ad aderire con immediatezza agli scenari e alle posizioni mentali di chi emette con più forza, di chi ferisce con più rapidità, di chi demonizza l’altro con inesorabilità indiscutibile.

Quello che, viceversa, non si deve assolutamente concedere al pubblico è la percezione della complessità dei problemi presentati: non si deve configurare un argomento articolato, che magari impegni i presenti in una qualche sospensione o ricerca; si deve invece vedere – possibilmente da subito – chi «picchia più forte» (si diceva: «ne uccide più la lingua che la spada»), e dunque con chi conviene schierarsi anche interiormente se non si vuole patire poi il dispiacere di vedersi sconfitti anche in effigie, attraverso una identificazione con il perdente. In psicoanalisi chiamiamo «posizione schizoparanoide» quell’assetto mentale per cui tutto il bene è solo da una parte (la nostra) e tutto il male è solo dall’altra (cioè fuori di noi).

Il meccanismo elementare e primitivo con cui funzioniamo quando siamo in posizione schizoparanoide è quello di proiettare all’esterno tutto ciò che è male: questo ci fa perdere una parte di noi stessi, ma lì per lì ci depura, ci alleggerisce, ci riconcilia con la nostra immagine, anche se ottiene l’effetto di popolare proiettivamente il mondo esterno di orribili realtà negative. Questo accade sia agli individui che ai gruppi, e - come la storia ci insegna periodicamente - ad intere nazioni. Un simile processo, che per lo più è inconscio, azzera le possibilità di interlocuzione, di scambio e di verifica: tutto è già deciso, il bene è tutto in me, il male è tutto nell’altro, e l’unica cosa da fare per bonificare il mondo è l’eliminazione del nemico.

In quel micro-laboratorio che è la seduta analitica raramente tentiamo di convincere un paziente in fase schizoparanoide a cambiare assetto interno, perché sappiamo che il più delle volte è inutile chiederglielo; non può cambiare con un atto volontario, di cui oltretutto non riconoscerebbe il senso. Di solito lo lasciamo sfogare, consentendogli di «emettere», abbassando così la pressione endogena; ciò crea uno spazio interno, che potrà ospitare in seguito introiezioni, là dove prima erano possibili solo emissioni. In parole povere, pensiamo che per «poter prendere dentro qualcosa» sia necessario in molti casi «poter mettere fuori qualcosa», creando così spazio nel mondo interno. Nelle situazioni pubbliche, però, non si può realisticamente sperare di operare allo stesso modo, non c’è il «tempo senza tempo» dell’analisi: non c’è il tempo per produrre trasformazioni complesse come quelle che ho descritto, né nei due o più che discutono né nel pubblico.

Bisogna dunque creare delle regole del gioco che limitino la violenza e la sopraffazione tra i contendenti, ed è ciò che molto empiricamente si fa cercando di garantire a tutti uno spazio adeguato. Vediamo però che l’idea di una reale equidistribuzione degli spazi durante un dibattito è un’autentica chimera, per le ragioni che esponevo all’inizio: senza incorrere nel codice penale, alcuni individui riescono a prevalere «fonicamente» o temperamentalmente sugli altri, aggiudicandosi di fatto uno spazio maggiore (ad es. interrompendo l’altro o dandogli sulla voce), e ciò è tollerato o subito dai conduttori.

Per questo io proporrei, del tutto pragmaticamente, un dispositivo elementare e sovra-personale di regolazione dei dibattiti che mutuerei da due ambiti lontanissimi l’uno dall’altro: il calcio televisivo, e i congressi americani di psicoanalisi. Che c’entrano, penserete, questi due riferimenti apparentemente così incongrui all’argomento che stiamo trattando? Ve lo dico in due parole: nel calcio si misura ormai da qualche anno, con precisione assoluta, il tempo del possesso di palla di ognuna delle due squadre; nei congressi psicoanalitici americani, quando lo speaker di turno ha passato di un solo secondo il tempo che gli era destinato, il suo microfono viene silenziato. Divertitevi a mettere insieme queste due realtà tecniche, magari con l’aggiunta di un silenziatore automatico in caso di superamento della soglia massima dei decibel consentiti, e potrete facilmente immaginare una soluzione (almeno parziale) del problema, equidistributiva e alla fine «alleggerente» anche per i conduttori dei talk show. Senza urli aggiuntivi, senza sgambetti o interruzioni, senza l’escamotage supplementare del «mi consenta» del prepotente di turno.

 

(unita.it)

 

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*Laureato in Medicina nel 1974 e specializzato in Psichiatria nel 1978, iscritto nell'elenco degli psicoterapeuti all'Ordine dei Medici di Bologna n° 10867. Indirizzo psicoterapeutico: Psicoanalitico.

Attività in Istituzioni Pubbliche. Ha lavorato dal 1974 al 1980 al "Centro Psicoterapico Provinciale di Palazzo Boldù", presso i Servizi Psichiatrici di Venezia, come terapeuta individuale e di gruppo; Medico Aiuto di ruolo presso i Servizi Psichiatrici di Treviso.

Dal 1992 al 1994 professore a contratto presso la scuola di specializzazione in Psicologia Clinica della Facoltà di Medicina all'Università di Bologna.

Membro dal 1991 al 1997 del Comitato Patologie Gravi della S.P.I., è stato ed è consulente-supervisore di numerosi servizi Psichiatrici e Neuropsichiatrici infantili del Nord-Italia.

Attività in Istituzioni private. Membro Associato della Società Psicoanalitica Italiana (S.P.I.) dal 1985, Membro Ordinario dal 1992, Analista con Funzioni di Training dal 1998, Docente della Sezione Veneto-Emiliana dell'I.N.T.. Incarichi istituzionali nella S.P.I.: Consigliere del C.P.B. 1992-1994, Segretario Scientifico C.P.B. 1994-1997, Segretario Scientifico Nazionale della S.P.I. 1997-2001, dal 2003 Presidente del Centro Psicoanalitico di Bologna.

Dal 2003 è Representative for Europe nel Board dell'International Psychoanalytic Association (IPA).

E' stato dal 2001 al 2004 il "Representative" per l'Italia del "Theoretical Working Party" della Federazione Europea di Psicoanalisi (FEP); dal 2002 è membro dell'European Editorial Board dell'"International Journal of Psychoanalysis".

Ha pubblicato lavori sulle principali riviste specializzate nel mondo, e in numerosi volumi in Italia e all'estero; suoi articoli sono stati tradotti e pubblicati in inglese, francese, spagnolo, greco e portoghese.

Ha pubblicato presso l'Ed. Bollati Boringhieri i volumi: "Come vento, come onda" (1999, Premio Gradiva 2000), "Il sogno 100 anni dopo" (2000) e "L'empatia psicoanalitica" (2002). Quest'ultimo è stato pubblicato in tedesco da "Psychosozial Verlag" ("Die Psychoanalytische Einfuehlung", 2003), in inglese da "Free Associations" ("Psychoanalytic Empathy", 2004), in spagnolo da "Lumen" ("Empatia psicoanalitica", 2004).

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