Il terremoto del 1703
e la quarta ricostruzione dell’Aquila

Testo completo di un saggio sul dopo-terremoto 1703, molto istruttivo per l'oggi,
che prossimamente sarà pubblicato in un libro-manifesto
. di Orlando Antonini*

Il castello di Rocca Calascio, danneggiato dal sisma del 1703, è stata scelta come "set cinematografico" naturale per numerosi film, tra i quali "Il nome della Rosa", di Umberto Eco.

 

22 dicembre 2009. - Del sisma del 2 febbraio 1703, il quarto di carattere distruttore nella storia dell’Aquila, sappiamo molto più rispetto agli analoghi precedenti del 1461, del 1349 e del 1315. Di esso si hanno varie relazioni, ad esempio il Raguaglio sottoposto all’autorità regnicola dai maggiorenti cittadini a tre mesi dal terremoto, i cui testi riferiscono anche di impressionanti fenomeni naturali concomitanti.

Il Raguaglio riferisce anzitutto che prima del big one del 2 febbraio vi furono due scosse già distruttive: una il 14 gennaio (“Mà essendo piaciuto à Nostro Signore per suoi impenetrabili giuditij per fatale preludio della sua imminente rouina verso le due hore della notte far seguire vn Tremuoto così violente, che fè precipitare nella Città vn Campanile, con parte della facciata della Chiesa di San Pietro di Sassa, e parte della facciata di San Quintiano, senz’altro daño, fe non che del timore de’ Cittadini, che con voci di contritione implorarono il Diuino aiuto, e l’intercessione de’ Santi.

La nobiltà ridotta à quell’ora nel Publico Palazzo al diuertimento del giuoco smarrì ad vn tale accidente, e tutta la Città rimase spauentata”), e un’altra il 16 seguente (“replicò à 16 detto; giorno di martedi il tremuoto più gagliardo del primo, lesionando molte Case, Chiese, e Palazzi; distrusse la Chiesa di San Pietro di Coppito, e quella di Sãta Maria di Roio, & atterriti gli abitanti, e Cittadini si ridussero alle campagne sotto le baracche, con patimenti, freddi, & incomodi insoffribili; ricorsero all’antidoto della penitêza per placare l’ira Diuina, con digiuni, Confessioni generali, orationi, & esercitij spirituali promossi dalla carità e zelo, delli molto Reuerendi Padri della Compagnia di Giesù, ed altri Religiosi “).

Il 2 febbraio, infine, “replicò il terremoto, e fu così orribile, che con vn breue miserere rouinò la Città, sucesse questo, alle ore 18 de’ due Febraro 1703 giorno dedicato alla Purificatione di Maria sempre Vergine, scoppiando, e scuotendo con tanta Vehemêza, che fù creduto volersi aprire la terra; il tremore della medema, li precipitij degl’Edificij, le grida, i lamenti de’ semi viui, i pianti delli feriti, il timore della morte, e la perdita della luce offuscata per più di due ore, composero in quel momento vn tuono d’abisso, & vno spauento infernale; impallidirono i più forti, e rimasero insensati i meno, e tutto spirò orrore, morte, e confusione; cadde la Città, caddero le Chiese, & ogni opra fù coperta dalla desolatione, e miseria, sepellendo sotto monti di pietre tre mila Cittadini d’ogni conditione, e trà essi il Vicario Capitolare, il Camerlengo, Grassiero della Città, molti Canonici, e capi di Chiese due Reggij Giudici, molti Cavalieri d’abito, Baroni, Religiosi, Monache, Preti, leggisti, & il celebre auuocato de’ Poueri Gio:Matteo Brãcadoro, & altri subalterni del Reggio Tribunale, Donne nobili, ciuili, Mercanti, & ogni genere di persone, e l’auanzo miserabile de’ Cittadini nel pianto de’ loro cari congiunti, nello spauento della morte, nella perdita degli aueri, e nell’oridezza della campagna prouarono anco li disaggi della fame colla priuatione de’ viueri rimasti nelle rouine della loro Patria...

Esalò la terra vapori puzzolēti, crescendo l’acqua de’ pozzi, e restarono infranti in pezzi gli aquedotti sotterranei della Città, e per 22 hore continue stiede la terra in moto, e gli animi di Cittadini confusi, e sconsolati, implorando cõ publiche penitenze la misericordia di quel Dio, che ciascuno haueua irritato con le sue colpe.

Li fanciulli, li feriti piangenti, le donne sconsolate, gli huomini istoliditi, e le sacre vergini sbigottite, e raminghe haverebbero tratta la compassione dalle selci; Et in vna traggedia, così deplorabile, non vi mancarono accidenti compassioneuoli, per renderla memorabile più d’ogn’altro disastro”.           

E come adesso nel 2009, nel 1703 la terra tremò per vari mesi: “Mà iñumerabili ne sono successi nello spatio di quattro mesi, che si contano fin d’ora ( e siamo à Maggio ) dal primo dì che principiarono; essendosi intesi notte, e giorno, Molti scoppiauano, e scuoteuano; altri rimbombauano, e scuoteuano, & altri faceuano tremare la terra, con rimbombi sotterranei caminanti, tenendo in continue agitationi l’vmana miseria, che oppressa dalle proprie colpe, aspettava, ne’ vani pronostici d’vna aggravata Coscienza l’vltimo dì, e l’estrema desolatione..”.

Quindi passa a descrivere la situazione nel Contado, da cui si evince che mentre nel 2009 è stato il Forconese ad essere devastato, segnatamente i centri di pianura lungo il fiume (Onna, S.Gregorio, Villa S.Angelo...),  nel 1703 la zona extra moenia più colpita fu l’Amiternino, il Monterealese in particolare.

Dai soli dati storici, bibliografici ed archivistici editi – essenzialmente quelli registrati dal Colapietra in Antinoriana III – si può seguire abbastanza, ad utile istruzione per l’oggi nelle sue differenze ma anche in non poche curiose assonanze ambientali, il lungo processo di ricostruzione settecentesca della città, con i caratteri, qui appresso riassunti, che se ne evidenziano.

Dapprincipio, allora come oggi il governo centrale si attivò per organizzare l’emergenza. Assieme all’ordine dato al vicario generale della Provincia duca d’Atri, nonché al preside aquilano, di “dar tutti li agiuti e ripari che convengano, avvalendosi del denaro della cassa del percettore ed altro”, disponeva il trasloco dell’udienza, ponendosi quindi in un primo tempo nella prospettiva dell’abbandono della città – poi, di fronte alla caparbia resistenza degli Aquilani, si abbandonava l’idea.

Sei giorni dopo il cataclisma, 8 febbraio, il Collaterale nominava ed inviava all’Aquila, non senza aver dovuto superare obiezioni sulla persona e problemi di rapporto con le summenzionate autorità provinciali e locali, il marchese della Rocca Marco Garofalo quale commissario straordinario, con un piano d’intervento basato, oltre che sui soccorsi economici per la prima emergenza – e mentre la terra, come detto, come ora continuava a tremare – sullo scavo delle macerie, la ricostruzione delle case e gli sgravi fiscali.

Il Garofalo emanava il primo bando il 12 febbraio: coprifoco a due ore di notte, obbligo del lume già da un’ora prima, dieci giorni di galera ai ladri, necessità di un’apposita licenza tanto per l’estrazione dei cadaveri quanto per scavar mobili anche nella propria casa. E il 18 un secondo, per la sistemazione di una grande baracca per i feriti nella piazza di S.Bernardino. Di fatto poi l’organizzazione dello scavo delle macerie passò, ognuno per la propria competenza, all’autorità civica per gli edifici, le strutture e gli spazi pubblici, a quella ecclesiastica per le chiese e i conventi, ed ai singoli proprietari per le residenze private – il reggente Biscardi aveva del resto osservato, in consiglio del Collaterale, che non ci si doveva “tanto spaventare di quelle voci che sempre poi si ritrova molto inferiore il danno, né sarà difficile il darli soccorso perché in questi casi le genti operano da sé sole…”.

Per la ricostruzione delle case, si noti, e la stessa riattivazione economica e generale ripresa sia della città sia dell’intero comprensorio, furono di fondamentale incentivo gli ampi sgravi fiscali deliberati, a 8 mesi dal terremoto, in forma differenziata, a seconda cioè dell’entità dei danni nei vari borghi del ‘cratere’. Ossia: 10 anni per l’Aquila, 8 anni per Civitareale e Pizzoli, 7 per Castelnuovo, Leonessa e Posta, 6 per Arischia, Borbona e Montereale, 5 per Cagnano e Civitatomassa, 4 per Poggio Picenze, 3 per Accumoli, Amatrice, Assergi, Barete e Scoppito, 2 per Antrodoco, Borghetto, Campli, Cittaducale, Lugnano, Picenze, Preturo, Rocca S.Stefano, Sassa, Tornimparte e Villa S.Angelo, ed 1 per Aragno, Bagno, Camarda, Filetto, Forcella, Fagnano, Tempera, Leporanica, Onna, Pescomaggiore, Roio, S.Eusanio, Collepietro, Tussillo, Paterno, Castiglione della Valle, S.Rufina e Rocca di Fondi.

Questo la dice lunga sulla ragionevolezza ed elasticità con le quali nel ‘700 ci si mosse, a fronte delle lentezze e la poca duttilità del pur ‘progredito’ secolo XXI, paralizzati come si è da normative sia nazionali sia europee rigide, tanto per quanto riguarda la cosiddetta ‘zona franca’, quanto per ciò che concerne il tema della rimozione delle macerie; sicché a ben 8 mesi dal sisma queste ultime sono tuttora in situ, paralizzando il puntellamento degli edifici necessariamente previo allo stesso avvio della fase ricostruttiva, e l’ottenimento della ‘zona franca’ e sospensione temporanea delle tasse costituisce motivo di frizione tra autorità nazionali e autorità locali.  

Quanto al governo civico aquilano del ‘700, come si è visto esso nel sisma era stato decimato, avendo avuto sepolti sotto le macerie i due principali magistrati elettivi: il camerlengo Alessandro Cresi e il grassiere Nicola Romanelli. Il 19 febbraio su ordine del Garofalo si radunò il primo consiglio generale, riunendo appena 43 cittadini, per sostituire le autorità venute a mancare: un consiglio generale, che dinanzi all’urgenza ed immanità dei problemi che assillavano la città, confessò implicitamente la propria impotenza rinunziando a riconvocarsi per oltre tre mesi, succube anche dell’autoritarismo sbrigativo del ‘commissario straordinario’ marchese della Rocca, il Garofalo cioè, i cui rapporti con la classe dirigente cittadina non furono precisamente esemplari.

Poi lentamente, nei mesi successivi, superato lo stordimento iniziale, il governo municipale riacquistava forza ed autonomia, tale che dal giugno 1703 riassumeva il proprio ruolo amministrativo, indebolendo di conseguenza il potere del commissario straordinario. Fino a che “la città andò avanti per proprio conto” e, “con o senza la partecipazione governativa, i lavori all’Aquila, illustratici dai rogiti, procederono speditamente”, fatto che contribuì a maggiormente “logorare la posizione del Garofalo, formalmente investito di potestà larghissima di vicario generale e commissario di campagna, ma in realtà non più in grado di sostanziare con provvedimenti adeguati e concreti il suo ufficio straordinario”. Sicché nel “gioco libero delle contrastanti forze economiche apparve completamente emarginata la presenza dello Stato, e per essa la missione eccezionale del Garofalo, nei suoi presupposti e nel suo significato”, dandosi, dal 23 giugno in poi, “il colpo di grazia alla sua posizione ormai ingiustificabile”; così il 17 luglio 1703 egli si dimise.

Come si accenna appresso, nel ‘700 il finanziamento della ricostruzione delle case e delle chiese fu a carico degli interessati. Il governo centrale e quello civico si occuparono del rifacimento e restauro delle strutture pubbliche. La ricostruzione della cattedrale e delle chiese parrocchiali intra moenia fu auto-finanziata vendendo censi, ipotecando beni immobili, vendendo beni mobili come pietre concie, campane, arredi e suppellettili, e facendole in gran parte ristrutturare, completare ed abbellire dalle famiglie patrizie, che vi avevano il patronato delle cappelle private e delle sepolture.

La ricostruzione delle chiese dei religiosi in genere fu presa a carico dagli ordini e congregazioni rispettive, anche a raggio europeo come fecero i celestini di Collemaggio, e quella delle chiese congregazionali dalle rispettive confraternite. Quanto alle parrocchiali o chiese devozionali dei centri della vallata, la ricostruzione fu assicurata in gran parte dalle casate nobili possidenti i rispettivi feudi, dalle famiglie facoltose che avevano il patronato di cappelle e altari, oppure utilizzando le eventuali ricche rendite delle parrocchie, ed a volte beneficiando dell’iniziativa di benemeriti titolari ecclesiastici, arcipreti e prevosti, che attinsero generosamente anche dalle proprie sostanze familiari. 

Il processo di ricostruzione degli edifici di culto, con gli strumenti e i ritmi di allora, si può dire durò 50 anni, distinti in tre fasi.

Nella prima, il ventennio seguito al sisma, si ricostruirono pressoché tutte le chiese cittadine principali, e ad opera di prestigiosi nomi romani (1705ss. la Concezione, di Carlo Fontana; 1707ss. l’organismo di San Bernardino, con cupola del Contini; 1708ss. Sant’Agostino, dello stesso Contini; 1708-1711ss. la cattedrale, di Sebastiano Cipriani; 1710ss. San Quinziano; 1712ss. San Domenico, di un architetto romano innominato; 1714-19 il Suffragio, di Carlo Buratti; 1715ss. Santa Maria di Paganica, e così via).

Nella seconda, ossia gli anni Venti e Trenta del ‘700, si configurarono gli interni di alcune chiese minori che erano state progettate e rialzate al rustico nella prima fase.

Nella terza, ossia gli anni Quaranta/Cinquanta del ‘700, si procedette a radicali innovazioni architettonico-stilistiche di edifici sacri che erano stati riedificati magari nel decennio dopo il terremoto, ma i cui committenti, colpiti dalle magnifiche fabbriche erette successivamente, decisero di ricostruirli dalle fondamenta con nuovi e diversi piani, aggiornati stilisticamente: ad esempio la Santa Caterina Martire, di Ferdinando Fuga, nel 1753.

Una fase extra conclusiva si aggiunse negli anni Sessanta e Settanta, in cui si realizzarono caratteristici progetti in tardo-barocco come il San Luigi, l’Annunziata, il San Giuseppino, e per ultima, nel 1770-75, la facciata del Suffragio in Piazza, di Francesco Leomporra - la cupola 1805 del Suffragio per opera del Valadier, la fronte 1851-59 della cattedrale di San Massimo, compiuta addirittura nel 1928, e la facciata e cupola 1870 di San Pietro di Coppito, furono completamenti postumi, la costruzione 1892 della nuova Concezione, inoltre, essendo dovuta alla balorda demolizione di quella 1705ss. del Fontana, cui si procedette per realizzare i portici del Corso.

È da segnalare, peraltro, che nel corso di tale grandioso interminabile cantiere non soltanto si procedé a ricostruire il patrimonio chiesastico crollato, ma si profittò altresì a sanare in radice, impostandole nuove dalle fondamenta, molte costruzioni sacre medioevali che dal ‘600 in poi per la smania di modernizzazione tipica del tempo spesso erano state rimaneggiate con soluzioni architettoniche e volumetriche tali, sia interne che esterne, che invece di risultarne abbellite ne erano uscite piuttosto deformate. 

Per ciò che invece concerne la diocesi, essa al momento del terremoto si trovava senza Vescovo – l’ultimo presule, il De la Cerda, era morto nel 1702 e fino al 1712 governarono la Chiesa locale dapprima il vicario capitolare Francesco Antonelli, rimasto sepolto nel 1703 sotto le macerie della cattedrale, e poi il nuovo vicario capitolare Domenico De Benedictis. Quando poi nel 1712 fu eletto vescovo Domenico Taglialatela, questi non poté prendere possesso a causa dei non ancora risolti problemi giurisdizionali di fine ‘600, sicché passarono altri sette anni sotto amministrazione transitoria: ben 16 anni in tutto, proprio nel periodo decisivo dell’avvio del processo di ricostruzione di San Massimo e delle chiese della città e del contado.

Mentre non mancava, si noti, la dedizione caritativa della Chiesa locale per soccorrere le popolazioni, per la ricostruzione della cattedrale vediamo dapprima il canonico procuratore Ignazio Porcinari impegnare, a due mesi e mezzo dal terremoto, 22 aprile, “i mastri fabbricatori milanesi Domenico Cometti, Pietro Longhi e Francesco Visconti, nonché l’aquilano Narducci, a scavare la cattedrale di S.Massimo, completamentre crollata con la sua ‘bella facciata’, recuperando entro luglio per 230 ducati colonne, marmi, campane, ferri, ed ammucchiando il tutto nella navata centrale”. Nei successivi mesi e anni si susseguono iniziative plurime, come nel 1704 quella per cui il capitolo vende per 25 ducati le pietre di S.Antonio ormai crollante, per procurarsi i danari per la riedificazione della cattedrale, fino ad arrivare al 1709, quando si affida all’architetto Sebastiano Cipriani il progetto per il nuovo edificio sacro, iniziandone i lavori nel 1711.

Sarà il vescovo Taglialatela a fornirci, con la sua relatio ad limina del 1722, la prima informazione sulla situazione delle chiese cittadine a vent’anni dal sisma. Alcune, compresa la Cattedrale, erano ancora in stato “quoddam rude contabulatum”; San Biagio, dove “usque modo lateralis tantum parietes unius navi sunt refecti, in qua divina celebrantur”; altre, erano “a ruinis reparatas” come San Quinziano, oppure “ad formam ornatumque decentem redactas”; San Silvestro, che “antiquitate, amplitudine et structura commendatur a multis”, era “bene retenta, quamvis illius parietes ex terremotu vitium sensit”; altre erano “noviter erectas” ed altre ancora “magnificentius reparatas”; San Marco, “nuper reedificata”; la Concezione, “reparata et in meliorem formam redacta”; Santa Maria di Paganica, “in multis ad meliorem redacta est formam”; Collemaggio, abbellita “eleganti opere et singulari magnificentia”; San Domenico, “noviter a fundamentis magnificentius renovata”; Sant’Agostino, “magnificentius reparata”, e così via. 

 

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Altri particolari, istruttivi per l’oggi in cui si invocano maggiori spazi di partecipazione alle forze operative e culturali locali per la ricostruzione post-terremoto, si riferiscono agli architetti ed artisti, nonché alle imprese edili, che eseguirono materialmente la ricostruzione settecentesca.

Ebbene, la documentazione ci dice che nel ‘700 la piupparte degli architetti che furono chiamati dagli Aquilani a reinventare e riprogettare i loro edifici sacri crollati furono di fuori, romani in assoluta preponderanza, e tra quelli che andavano per la maggiore in quel frangente storico – i Fontana, i Cipriani, i Contini, i Buratti, Barigioni, Ferdinando Fuga. E altresì gli artisti, scultori e stuccatori che abbellirono le nuove fabbriche, furono forestieri, ticinesi in assoluta preponderanza, ed anche sulmonesi e napoletani. Quanto alle imprese edili, risulta che anch’esse per la maggior parte furono forestiere, lombarde/milanesi in assoluta preponderanza, delle quali alcune erano sul posto da secoli, ma molte affluirono all’Aquila appunto per la ricostruzione settecentesca.

Ne risultò per la città, nonché per i centri del contado, e pur mantenendosi sostanzialmente sull’identico impianto urbanistico preesistente, una facies architettonica e formale radicalmente nuova: il carattere ancora prettamente medioevale dell’edilizia urbana, sia civile che religiosa, delle quinte e degli scorci stradali e delle facciate di case, chiese e palazzi, scomparve d’incanto, assumendo la facies moderna grosso modo barocca, del tutto distinta dalla precedente, che conosciamo e che il terremoto del 6 aprile 2009 è venuto a sconvolgere.

Ciò  non significa che agli attori ‘forestieri’ fosse stato consentito pervertire l’identità culturale che la città si era andata forgiando nei secoli. Il nuovo volto stilistico dell’Aquila e dei centri del territorio fu voluto tale dai committenti aquilani, che ricorsero a quegli artisti e concordarono con essi nei particolari proposte progettuali, preventivi ed esecuzione delle opere.

Il barocco aveva fatto il suo ingresso nell’Aquilano già dal primo ‘600, e nei successivi anni Sessanta e Settanta del secolo, grazie soprattutto alla febbrile creatività di Francesco Bedeschini e degli stuccatori lombardi e ticinesi, aveva riconfigurato e trasfigurato gli interni delle chiese principali. Senza parlare dell’ordine architettonico classico e dell’impianto gesuitico adottati dagli architetti romani settecenteschi nel riconfigurare gli interni delle chiese crollate o danneggiate e nell’inventare le nuove: essi costituivano un dato acquisito nella tradizione architettonica aquilana, incoativamente da fine ‘400 ed inizio ‘500, e nel 1595 del Gesù del Valeriani, nonché nel 1636 per il San Filippo, o il 1646 per il Sant’Antonio de Nardis, in maniera compiuta.

È sempre la documentazione, poi, a dirci che quei pur famosi autori per l’ampia generalità dei casi nelle scelte formali ed operative furono determinati del tutto dai committenti locali. Questi ultimi a volte furono intrattabili, come nel caso dei frati di San Bernardino, i quali, di fronte alla tipologia cupolare prismatica proposta dal Contini nel 1708 per coronare di nuovo l’immensa ottagonale sezione centrale della basilica, la rifiutarono, obbligandolo alla molto più polarizzante cupola a calotta estradossata, che dal ‘400 aveva bellamente caratterizzato la chiesa e lo skyline cittadino. In breve nella quarta ricostruzione dell’Aquila e dei centri del suo bacino territoriale il radicalmente nuovo consisté essenzialmente nell’aver esteso e generalizzato agli esterni degli edifici il carattere formale e stilistico che già da tempo informava la generalità degli interni, sia civili sia ecclesiali, e il gusto degli abitanti.  

I documenti provano insomma che nell’immane sinergia di forze in azione, le ‘forestiere’ ebbero il sopravvento – del resto l’entità della ricostruzione era tale, ed anche oggi lo è, che non sarebbe stato possibile alle sole forze culturali ed operative locali di portare avanti la grande impresa – ma sviluppando in pienezza premesse culturali ed artistiche già recepite in loco.

 

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* Mons. Orlando Antonini, 65 anni, è nato a Villa Sant'Angelo (L'Aquila), uno dei borghi distrutti dal terremoto del 6 aprile 2009. Ordinato sacerdote nel 1968, è stato parroco di Picenze. Formazione diplomatica presso la Pontificia Accademia, ha fatto importanti esperienze come Segretario in diverse Nunziature apostoliche: Bangladesh, Madagascar, Siria, Olanda, Francia e Cile. Nel 1999 l'ordinazione episcopale, la nomina a Vescovo  e l'affidamento della Nunziatura apostolica in Zambia e Malawi, che ha retto fino al 2005. Nunzio apostolico in Paraguay fino ad agosto 2009, è ora a Belgrado dove Benedetto XVI gli ha affidato la Nunziatura in Serbia. Scrittore, musicista e storico, mons. Antonini è uno dei più insigni studiosi di architetture religiose e urbane in Abruzzo. Di capitale interesse scientifico le sue pubblicazioni, come  "L'architettura religiosa aquilana" volumi 1 e 2, "Manoscritti d'interesse celestiniano in Francia", "Chiese dell'Aquila", "Recupero e riqualificazione dei centri storici del Comitatus Aquilanus"  e "Villa Sant'Angelo e dintorni". Le sue pubblicazioni sull'architettura religiosa sono imprescindibile punto di riferimento per studiosi e storici dell'urbanesimo abruzzese.

Annotazione biografica a cura di Goffredo Palmerini