Amalia Bagnacavalli
Una balia e la sifilide
nell'Italia del 1890

Donne d'Italia
Di Claudio Bosio.

 

14 febbraio 2011. - 1861-2011: sono ufficialmente 150 anni che l’Italia è unita, almeno sulla carta, e l’evento è previsto debba essere festeggiato con tutti i crismi dell’ufficialità. Per legge, quasi! Sarà, secondo i più, un tentativo (utopistico?) di risvegliare negli italiani quel sentimento patriottico e d’identità nazionale labile se non latitante. Purtroppo, come è stato ben evidenziato dallo storico Ernesto Galli della Loggia (su "Il Corriere della Sera") «siamo italiani senza memoria. Quella memoria storica che non ci appartiene, perché non la conosciamo o perché non l’abbiamo mai vissuta». È un fatto, comunque, che, a partire dal 1861, l’Italia non sia più stata un mosaico di Stati. Scomparsi i ducati e i granducati in Emilia e Toscana, tramontate da Napoli a Palermo le fortune dei Borboni, mancavano a completarne l'unità il Lazio, che rimaneva territorio papale, e il Veneto, ancora in mano austriaca.

La proclamazione del Regno d'Italia avvenne a Torino, con questo decreto:

«Il Senato e la Camera dei Deputati hanno approvato; Noi abbiamo sanzionato e promulghiamo quanto segue: Articolo unico: Il Re Vittorio Emanuele II assume per sé e suoi Successori il titolo di Re d'Italia. Ordiniamo che la presente, munita del Sigillo dello Stato, sia inserita nella raccolta degli atti del Governo, mandando a chiunque spetti di osservarla e di farla osservare come legge dello Stato».

Era il 17 marzo 1861.

Non tutti hanno chiare le condizioni dell’Italia di un secolo e mezzo fa. Eravamo veramente un "Paese-in-via-di-sviluppo". Solo il 22% della popolazione era alfabetizzata: l’analfabetismo femminile era dell’81%. Nel 1863 (primo anno con disponibilità di statistiche sull'intero territorio nazionale, o quasi) il tasso di mortalità infantile (proporzione di nati vivi che muoiono entro il primo anno di vita) era di 232/1000 (duecentotrentadue su mille!!), con forti differenze regionali. La durata media della vita (le prime statistiche attendibili sono del 1881) era di 35 anni sia per gli uomini che per le donne. (A distanza di circa 125 anni, nel 2005 la durata media della vita in Italia è di 79 anni, media fra uomini e donne).

Eravamo un popolo di contadini, ignoranti, denutriti, sfruttati da tutte le Autorità costituite, sia politiche che religiose. In questo contesto, le donne "comuni" (madri, figlie, spose ecc.) sembrano non siano mai state importanti ai fini dell’evento risorgimentale; di loro non si sa nulla o ben poco, quasi fossero una sorta di lato oscuro della luna: presenti e operanti. Ma invisibili. In ogni caso, insignificanti. L’oleografia culturale ufficiale le ha private di memorabilità storica, destinandole ad un ruolo domestico per altro ampiamente sottovalutato.

Ovvio che tra intellettuali e popolo non ci fosse né comprensione né comunità d’intenti.

"Libertà! Indipendenza!", reclamavano entusiasti gli insorti e i volontari delle varie correnti risorgimentali.

"Polenta! Polenta!" ribattevano, cocciuti e sordi, i contadini descritti dal Nievo nel romanzo Le confessioni d'un italiano.

Forse, nello specifico, le donne-contadine non si erano frammischiate a chi reclamava polenta: loro sapevano bene che quando si vive di polenta (cioè ci si nutre soltanto di polenta, perché non si ha altro da mettere sotto i denti), si muore di polenta! Cioè di pellagra [1]. Questa era la sorte segnata di tanta povera gente: vivere di polenta e morire di polenta. Per un contadino era normale cibarsi di 2-3 kg di polenta al giorno (e… basta!) ma non poteva sapere che questo sarebbe stato nocivo per la sua salute. Per star bene, gli sarebbe bastato ingerire 15 mgr. al giorno di una sostanza chimica a quei tempi totalmente sconosciuta (Sarà "scoperta" soltanto nel 1937, dallo statunitense Conrad Arnold Elvehjem): la vitamina PP (Pellagra Preventing).

Oltre alle estreme condizioni di denutrizione, gli Italiani del tardo '800 avevano a che fare con tutta una serie di malanni e malattie, impensabili ai giorni nostri. l’assoluta mancanza di prevenzioni igieniche, le miserrime condizioni abitative malsane, promiscue a uomini e animali, la precarietà della protezione corporea con indumenti inidonei ecc., sono state tutte concause degli innumerevoli casi di tubercolosi, colera, mortalità puerile e giovanile, malformazioni (rachitismo, cretinismo ecc.) che si sono evidenziati nei primordi dell’Italia unita.

Ma, fra gli altri, c’era un flagello enormemente diffuso: la sifilide. Un’orrenda infermità dal bel nome, derivato dal poemetto Syphilis sive de morbo gallico del medico veronese Gerolamo Fracastoro (1478-1553) in cui si narra la storia di Sifilo, giovane pastore, che, avendo offeso Apollo, viene da questi punito con una terribile malattia ulcerosa che ne deturpa irrimediabilmente la bellezza. Sappiamo che questo morbo è causato dall’infezione dei batteri Treponema pallidum, evolve in 3 fasi e può essere contratto, nella forma connatale, prima ancora della nascita attraverso il sangue materno infetto oppure alla nascita, durante la discesa nel canale del parto. La trasmissione può essere anche verticale, cioè anche da madre a feto attraverso il cordone ombelicale. Comunque, nella maggior parte dei casi, il contagio (possibile fin dalle primissime fasi della malattia) avviene attraverso i rapporti sessuali. L’aspetto rimarchevole della sifilide dell’Ottocento, fu la sua ampia diffusione fra l’élite artistica europea: affetti da questa malattia, tanto per citare le personalità più note, furono Beethoven, Schubert, Schuman, Baudelaire, Flaubert, Maupassant, Toulouse-Lautrec, van Gogh, Gaugin, Oscar Wilde, Nietzsche ...

Non tutti sanno, però, che il dilagare delle malattie veneree nel secondo '800 è da mettere in stretta relazione con le guerre risorgimentali.

Basta pensare alla concentrazione di uomini, per lo più giovani, degli eserciti che si scontravano nella IIa guerra d’indipendenza: alla battaglia di Solferino (24 giugno 1859), per esempio, gli effettivi dei tre eserciti belligeranti, piemontesi (≈36.000), francesi (≈79.000), austriaci (≈120.000), assommavano a 235.000! Questa massa di soldati, quando non erano impegnati sui campi di battaglia, onoravano i famosi «3 vizi», cioè a dire «Bacco, Tabacco e Venere», abitudini inveterate di tutti gli eserciti, di ogni epoca. Per procurarsi questi … passatempi, il soldato dava fondo a tutte le sue sostanze: la "merce", a disposizione, non scarseggiava, in particolar modo «le facil donne orizzontali», come le chiamava U.Ojetti, cioè le prostitute.
 

Henry Dunant. Solferino 1859. Museo Nazionale del Risorgimento di Torino.
 

Quest’ultime seguivano gli eserciti nei loro spostamenti. Facevano parte, quasi ufficialmente, delle sussistenze, acquartierate com’erano nelle retrovie. Esercitavano il loro mestiere, dove meglio capitava. Una delle conseguenze di questa prostituzione su larga scala, fu un vertiginoso aumento delle malattie veneree. Per porre freno a questa patologia e, anche, per favorire l'esercito francese, nostro alleato contro l'Austria, Cavour, con un decreto del 1859, autorizzava l'apertura di case controllate dallo Stato per l'esercizio della prostituzione. Nascevano in tal modo le "case di tolleranza", così chiamate perché, appunto, "tollerate" dallo Stato. Erano di tre categorie. La legge fissava le tariffe, dalle 5 lire per le case di lusso alle 2 lire per quelle popolari. (All’incirca, 22 euro e 9 euro rispettivamente).

Fra le altre norme, socio-sanitarie, c’era la prescrizione legale che le persiane di queste abitazioni fossero sempre abbassate, da cui il nome di "case chiuse".

Il fulcro della normativa era, comunque, la vigilanza sanitaria, concentrata sullo strumento della cosiddetta "patente", obbligatoria per l'esercizio dell'attività, dove venivano registrate le visite sanitarie bisettimanali.

Il costo di questi controlli medici era a carico della prostituta: 1 lira per la visita ordinaria (€.4,43), 1,5 lire (€. 6,64) per la visita a domicilio, gratis per le prostitute attestate come "miserabili"dalle amministrazioni comunali dei paesi d'origine. Sulla patente erano anche specificati gli obblighi comportamentali delle prostitute [2], quali, ad esempio: il divieto di esercizio per le minori di 16 anni, i divieti di vestire in modo poco decente, di essere in stato di ubriachezza, di affacciarsi alle finestre o stazionare sulla porta "anche della propria abitazione", di fermarsi o frequentare le vie principali, piazze e pubbliche passeggiate, di commettere "atti indecenti" nei luoghi pubblici e tenere "discorsi osceni", di seguire i passanti per le strade "o adescarli con parole o segni", di restare fuori casa "senza giusta causa" oltre le ore 20. La normativa stabiliva che il guadagno delle prostitute fosse devoluto, nei postriboli di prima classe, per 3/4 alla tenutaria e 1/4 alla meretrice, nelle altre categorie 2/3 alle prostitute e 1/3 alla tenutaria.

Oltre al dilagare delle malattie veneree, la prostituzione cosiddetta "clandestina", cioè quella esercitata per strada dalle ancora numerose «dames sans merci», ha comportato un rilevante incremento delle nascite di bambini illegittimi. Le Autorità non erano tenute a informarsi sull’identità del padre (in ottemperanza ad una legge papalina rimasta in vigore nel nuovo Stato italiano: si pensava che, così facendo, si tutelasse l’unità della famiglia, ritenendo che molti padri illegittimi fossero sposati). I cosiddetti bastardini (di padre legalmente sempre-sconosciuto e di madre, assai spesso, ignota) venivano affidati alle cosiddette "Opere Pie", o brefotrofi (da brefo = nutrisco).

Era lecito abbandonare un neonato. I genitori potevano lasciare il figlio o sulla scalinata della chiesa del paese, oppure lo lasciavano nella porta girevole chiamata "Ruota", all'entrata del brefotrofio. A questi poveri bambini si davano cognomi convenzionali, con varianti da città a città. Comune era dare cognomi dal significato religioso, che proteggessero i bambini (Diotisalvi, Diotaiuti, Servadio, Diotallevi, Pregadio ecc). A Napoli era tipico il cognome Esposito (da "esposto"), a Firenze il cognome Innocenti o Degl'Innocenti, a Milano Colombo (perché nell’emblema del brefotrofio era scolpito un colombo). A Roma, durante il papato, i trovatelli venivano detti projetti, da cui deriva uno dei più comuni cognomi romani: Proietti. Dopo l'unità d'Italia, si usarono nomi di fantasia legati all'ambiente (Monti, Siepi, Ruscelli …) nei certificati però i trovatelli erano comunque considerati figli di N.N. (abbreviazione di Nomen Nescio, lett. "non conosco il nome").

Questa prolusione, comparativamente lunga, serve a meglio valutare le vicissitudini della vita di una povera contadina emiliana, Amalia Bagnacavalli, vissuta nel secondo '800, e della sua pervicace, indomita risolutezza nel far valere le proprie ragioni contro il malcostume, i soprusi, la protervia e il bieco autoritarismo dell’epoca.

La storia di questa donna, veramente coraggiosa e battagliera, è stata oggetto di uno studio dettagliato da parte di. D. Kertzer, rettore della Brown University, profondo conoscitore della storia italiana, che ne ha tratto un libro «La sfida di Amalia», edito da Rizzoli, e attualmente classificato fra i best sellers di saggistica. È un libro di storia e di storie, che racconta il nostro passato, non troppo lontano. E che fa stare male.

Si racconta, ad esempio, che nell’ospedale bolognese degli esposti, nei primi dieci mesi del 1895 c'erano 128 bambini allattati artificialmente (con il latte di vacca) e 95 di loro morirono. «Qui i bambini vengono a morire a spese pubbliche» dicevano i fautori delle riforme sociali. Nel 1896 i bambini morti perché non potevano prendere il latte di una donna furono 202 su 313. Erano malati di sifilide, avrebbero infettato la donna che li avesse attaccati al seno.

«La sfida di Amalia» è il racconto di una balia di 23 anni, povera e analfabeta, di nome, appunto, Amalia Bagnacavalli, abitante in un piccolo borgo di montagna, Oreglia, frazione del più ampio comune di Vergato, nel bolognese. Con lei vivevano, in una casa fatta di pietre sovrapposte senza calce, il marito Luigi Migliorini, trentaduenne, la figlia Adele, di un anno, e la famiglia di lui, composta dai genitori, due fratelli e una sorella. L’intera famiglia campava cercando di strappare al terreno, duro e per niente fertile, i mezzi di una stentata sussistenza. Il problema cruciale era come superare l’inverno, cioè la stagione improduttiva. Sulla mensa comparivano soltanto castagne (raccolte nel bosco), qualche uovo, pochissimi ortaggi e, nelle occasionissime, del pollame. Da notare che Amalia e le altre donne di casa, non sedevano mai a tavola per mangiare: solo gli uomini pasteggiavano seduti, mentre le donne, pronte a servirli, se ne stavano ritte in piedi, addossate al muro, trangugiando alla bene-meglio "qualcosa".

Secondo una tradizione vecchia di secoli, quasi tutte le donne povere dell’Italia di fine '800, per far fronte alle ristrettezze economiche della famiglia, prendevano in cura dei trovatelli dai vari Ospizi, a gestione prima ecclesiastica e poi laica. Nel 1880-90, l’Ospedale retribuiva queste "prestazioni" con un emolumento mensile di 9 lire (≈ €.40/mese). Tali pagamenti cessavano al compimento del quindicesimo anno d’età dei trovatelli. A partire da quell’età i maschi dovevano vedersela da soli. Le femmine potevano essere trattenute fino ai 10 o 11 anni e poi le mandavano al "Conservatorio" dove imparavano a cucinare e ricamare. Le ragazze del Conservatorio non erano richieste dagli uomini, perché non sapevano lavorare, infatti non avevano avuto stimoli in età giovanile. Per questo molte, con la dote, andavano nei conventi, o rimanevano in conservatorio fino alla morte.

Anche Amalia decise di allattare al suo seno un orfanello. Si recò quindi a Bologna (con un costosissimo viaggio in treno, di 4 ore per fare 30 km!) e ottenne in affido dall’Ospedale degli Esposti, una bambina di pochi mesi, Paola Olivelli, dall’apparenza gracile e smunta. Per questo Amalia, dapprima, rifiutò la piccola, ma le rassicurazioni dei dottori e il rischio di tornarsene a mani vuote ad Oreglia dalla famiglia, la convinsero a prendere la creatura e portarsela a casa. Fu soltanto quando si ritrovò in treno, che poté esaminarla meglio. Quello che vide le mise certamente i brividi: la piccola aveva un corpo malformato, il petto aveva una strana curvatura e c’era qualcos’altro che non andava. All’Ospizio aveva notato che gli occhi della bimba erano coperti da un velo sospetto: ora che poteva osservarla più da vicino, Amalia si accorse che la piccola era cieca.

La donna aveva sperato che accudire un bambino del brefotrofio le avrebbe garantito un maggior prestigio presso la famiglia del marito e le avrebbe reso la vita più facile. Ben presto capì d’essersi sbagliata: la bambina piangeva tutto il giorno e faceva fatica a poppare dal suo seno. Preoccupata di perdere il latte, Amelia riprese ad allattare anche la figlia Adele. Tuttavia, non solo Paola continuava ad essere inappetente, ma il naso cominciò a colarle senza sosta, secernendo una strana sostanza gialla. Col passare dei giorni (esattamente 18 giorni da quando aveva lasciato l’Ospedale) la schiena della bimba si cosperse di strani puntini bianchi, duri al tatto, della grandezza d’una capocchia di uno spillo.

Poi un eritema rosso apparve fra le eruzioni bianche e in poco tempo si estese sino all’interno delle cosce della piccola. Amanda si decise a consultare il giovane medico del paese, dott. Carlo Dalmonte (il quale prestava la sua assistenza gratuitamente, in qualità di Medico condotto alle dipendenze del Comune). Il responso fu inequivocabile: la bocca e, in particolare, le labbra interne della bimba erano ulcerate.

Si trattava di un caso palese di sifilide. Forte delle dichiarazioni scritte del dott. Dalmonte, Amalia, il giorno dopo, si ripresentò all’Istituto di Bologna. Ma venne …. respinta con perdite! I responsabili medici dell’Ospizio, pur avendo preso visione delle carte documentali del dott. Dalmonte, rimandarono Amelia a casa dicendole di non allattare per un mese e di controllare giornalmente se sul suo corpo comparissero o meno delle piaghe o lesioni. In questo malaugurato caso, l’Istituto non sarebbe stato in grado di aiutarla ma l’avrebbe indirizzata ad un Ospedale speciale dove sapevano curare i casi come il suo. (Ad Amalia non venne fatto il nome: si trattava del Sifilocomio).

Per le prime tre settimane non successe nulla, poi, una mattina, la giovane donna avvertì una strana depressione vicino al capezzolo del seno sinistro. Dopo un’altra visita del dott. Dalmonte, Amelia tornò all’Ospizio per la terza volta: le dissero che, ahilei!, come tante altre, aveva la sifilide e che spettava a lei "darsi da fare" per farsi curare presso Istituti idonei. Amalia fece ritorno a casa terrorizzata dall’idea di dover raccontare al marito e alla famiglia quello che le era accaduto. I sintomi indubbi della malattia non tardarono a verificarsi, come accertato dal Medico condotto del paese. Non solo, ma rimasero infettati sia il marito Luigi che la figlioletta Adele. Conscia della malattia che aveva contratto e della quale aveva inconsapevolmente contagiato i suoi cari, Amelia decise di non tacere.

La sua vera "sfida", smisurata, inattendibile, fu questa: voleva avere giustizia. Per questo si mise in caccia di un Avvocato che, come lei, non avesse timore di sfidare le Autorità che gestivano dispoticamente l’Ospizio degli Esposti. Fu fortunata: l’allora ventottenne Augusto Barbieri, un avvocato ambizioso, volitivo e progressista, accettò l’incarico tanto difficile di difenderla in giudizio. Nel frattempo Amelia, il marito Luigi e la piccola Adele avevano iniziato il trattamento presso la clinica dermosifilitica di Bologna, a base di sali mercuriali. Malgrado ciò, in breve tempo, sia lei che il marito si trovarono coperti di piaghe e potevano muoversi solo con difficoltà, mentre la loro figlioletta Adele morì.

Anche in base a questo avvenimento, l’avv. Barbieri citò in giudizio direttamente il conte Francesco Isolani, presidente del Consorzio amministrativo centrale degli spedali di Bologna, (da cui dipendeva anche l'Ospizio degli esposti) e con lui i vertici del potere medico della città. Anche allora (come oggi!) la casta dei camici bianchi godeva di una impunità imbarazzante: la prassi comune era di negare sempre, in ogni circostanza, qualsiasi responsabilità legale per il loro operato.

Non si poteva certo correre il rischio che gli ospedali mettessero a repentaglio il loro intero patrimonio ogni volta che un paziente si lamentava del trattamento ricevuto. La causa intentata da Amelia, fra l’altro, avrebbe consentito alla gente di guardare con occhi nuovi dentro la casa degli esposti: i numeri inimmaginabili dei malati, le storie incredibili e le sofferenze inaudite dei pazienti, anche per la responsabilità della Chiesa che imponeva la separazione delle madri non maritate dai propri figli.

Kertzer apre una finestra quasi inedita sulle condizioni sanitarie di quel tempo, su come si viveva la sifilide (clinicamente e socialmente), sulla negligenza degli apparati sanitari in forza ai brefotrofi, sulla superficialità nell’affrontare una malattia mortale e così diffusa che i popolani la chiamavano “peste”, sulla leggerezza con cui si affidavano alle balie orfanelli a rischio di gravi malattie infettive. Nel suo libro, serpeggia la denuncia sulle misere condizioni del popolo basso, dei contadini, degli analfabeti e soprattutto delle donne così esposte ai rischi del contagio e totalmente prive di qualsiasi tutela sanitaria e giuridica.

È l’affresco di una società che cambia sotto i colpi delle prime rivendicazioni contadine spinte dai nuovi ideali socialisti che attraversano l’Europa. Dietro al velo di un paese che cambia, però, rimane la forte discrepanza culturale, sociale ed economica tra la città e la campagna e tutta la vulnerabilità dei popolani facilmente raggirabili nella loro atavica ignoranza. Mentre Amalia e Luigi, colpiti dai lutti, sopportano le piaghe della malattia, scoprono anche quanto grande è la disonestà degli uomini e quanto fittizia la giustizia per i poveri.

Amalia Bagnacavalli chiedeva che le fosse risarcito il danno subito da lei e dalla sua famiglia: per la sifilide oltre ad Adele, perderà altri due figli e altri due nasceranno morti.

Amalia, comunque, non era per niente diversa dalle donne della sua epoca e della sua condizione: assoggettata alla famiglia, al marito ed alle convenzioni parentali e sociali retrograde della più povera ed isolata vita contadina. Nulla del processo, dei risvolti finanziari, dei meccanismi politici e sociali riuscì a scalfire la pesante coltre di ignoranza che le apparteneva. Amalia continuava a vivere in un contesto in cui vergogna e senso di emarginazione sono i primi sentimenti che si provano quando ci si scopre (senza colpa) affetti dalla sifilide che, per lo stretto legame che ha con il sesso, non solo si vive come un’infermità, ma anche e soprattutto come un vero e proprio stigma sociale aggravato dalla propaganda clerico-culturale portata avanti da ecclesiastici e moralisti per i quali ammalarsi di sifilide equivaleva ad una pratica espiatoria per aver commesso atti impuri.

Eppure, il solo fatto di avere la consapevolezza di aver subito un torto, peggio, un’ingiustizia e aver sporto denuncia contro le massime autorità istituzionali e sanitarie bolognesi, rende Amalia un’eroina del tutto inedita nel panorama ottocentesco.

La magistratura, intanto, procedeva lento pede e, così, i processi andarono avanti per dieci anni. Primo grado e appello a Bologna, Cassazione a Roma, nuovo processo ad Ancona...

L' avvocato Augusto Barbieri, che sosteneva di voler difendere i deboli dai poteri forti, in realtà usava la povera donna come uno strumento per fare carriera.

Alla fine, comunque, vinse.

Riuscì ad ottenere un indennizzo di 23.000 lire, pari a ≈ 101.000 euro (una vacca costava 500 lire, cioè ≈ €.2.300) e un vitalizio mensile di 30 lire ((≈ €.133) per la donna. Con un trucco trasformò il vitalizio in contante immediato (7.000 lire = €. 31.000 ) e incamerò anche quello.

Morale: Amelia non ebbe un soldo (solo il pagamento delle cure ricevute) e morirà priva anche del proprio cognome, perché nessuno volle più avere nulla da spartire con la donna che aveva sfidato gli Spedali.

Non è romanzo, purtroppo. E' la cronaca di giorni vissuti appena ieri dai padri dei nostri nonni.


[1] La pellagra è una malattia causata dal mancato assorbimento di vitamine del gruppo B, in particolare niacina (vitamina PP), o di triptofano, amminoacido necessario per la sua sintesi. Questa vitamina è presente in genere nei prodotti freschi: latte, verdure, cereali. Anche il mais possiede questa vitamina, in una forma che però non può essere assorbita all'intestino, se non dopo un trattamento con alcali.. Presso gli Aztechi e i Maya, la pellagra era rara perché il mais (per la cottura delle tortillas) era immerso durante la notte in idrossido di calcio che ne liberava la niacina. La pellagra è responsabile di un quadro clinico detto "delle 4 D": dementia, dermatitis, diarrhea e death, "morte"...

[2] La parola "prostituzione" deriva dal verbo latino prostituĕre (pro, "davanti", e statuere, "porre"), e indica la situazione della persona (in genere schiava) che non "si" prostituisce, ma che, come una merce, viene "posta (in vendita) davanti" alla bottega del suo padrone. Questa origine richiama quindi la condizione storicamente più abituale della prostituta, la quale non esercita autonomamente la sua professione, ma vi è in qualche modo indotta da soggetti che ne sfruttano il lavoro traendone un proprio guadagno (c.d. "protettori") Fra gli innumerevoli sinonimi citiamo: puttana (da "putto", in quanto i rapporti a pagamento causavano spesso gravidanze, oppure dal latino "putta", ragazza, passato attraverso il francese antico putain "puzzolente"), troia (femmina di maiale destinata alla riproduzione), zoccola e maiala, battona, bagascia (d'origine ligure), baldracca, sgualdrina, vacca, oltre ai meno noti androcchia, pelanda, sciacquetta, tufera e lumera. Il termine mignotta deriva dal fatto che i trovatelli venivano registrati (così almeno nell’Ospedale di S.Spirito di Roma) come filiu m. ignotae, dove la m. sta per matris. Di differente e più moderna origine sono invece termini allusivi come passeggiatrice, laida, squillo (in riferimento alla chiamata telefonica), lucciola (con riferimento agli accendini accesi che si intravedono di notte ai lati delle strade). Tra i sinonimi che non provengono dal linguaggio popolare troviamo invece meretrice, cortigiana, lupa (dal latino, da cui anche "lupanare") e lenea (sempre dal latino, da cui anche lenocinio). Recentemente si è diffuso in Italia, il termine escort, un prestito dall'inglese usato come sinonimo di "squillo di lusso", ovvero una persona che lavora per appuntamenti, in proprio e/o tramite contatti forniti da terzi.

***

1861-2011: hace oficialmente 150 años que Italia se unió, al menos en el papel, y el evento se espera que se celebre con todas los honores oficiales. Por ley, casi! Será, según la mayoría, un intento (¿utópico?) para despertar entre los italianos sentimientos patrióticos y una identidad nacional que se encuentra débil, a decir lo menos.

Lamentablemente, como ha quedado claramente demostrado por el historiador Ernesto Galli della Loggia (en "Il Corriere della Sera") 'Somos italianos sin memoria. Esa memoria histórica que no es nuestra, porque no la conocemos bien porque nunca la hemos vivido". Es un hecho, sin embargo, que, desde 1861, Italia ya no es un mosaico de estados. Desaparecidos los ducados y grandes ducados en Emilia y Toscana, eliminadas desde Nápoles hasta Palermo las fortunas de los Borbones, faltaban —para completar la unidad— el Lazio, que seguía siendo territorio papal, y el Veneto, que todavía estaba en manos de Austria.

La proclamación del Reino de Italia se llevó a cabo en Turín, con este decreto:

«El Senado y la Cámara de Diputados han aprobado; Nosotros publicamos lo siguiente: Artículo único: El rey Vittorio Emanuele II asume para sí y para sus sucesores el título de Rey de Italia. Ordenamos que el presente, que lleva el sello del Estado, sea incluido en la colección de los actos del gobierno, y sea enviado a cualquier persona que deba observarlo y hacerlo observar como ley del Estado».

Era 17 de marzo de 1861.

No todos conocen bien las condiciones en Italia de un siglo y medio atrás. Eramos realmente un "país en vías de desarrollo". Sólo el 22% de la población sabía leer y escribir: el analfabetismo femenino era del 81%. En 1863 (primer año con estadísticas disponibles para todo el territorio nacional, o casi) la tasa de mortalidad infantil (proporción de nacidos vivos que mueren dentro del primer año de vida) fue de 232 / 1000 (doscientos treinta y dos de cada mil!) con fuertes diferencias regionales. La esperanza de vida (las primeras estadísticas confiables son de 1881) era de 35 años para hombres y mujeres. (125 años después, en 2005, la esperanza media de vida en Italia es de 79 años, promedio entre hombres y mujeres).

Éramos una nación de campesinos, sin educación, desnutridos, explotados por todos los poderes constituidos, tanto políticos como religiosos. En este contexto, las mujeres "comunes" (madres, hijas, esposas, etc.) parece que nunca hayan sido importantes para el Risorgimento; de ellas no sabemos nada o muy poco, casi como una especie de lado oscuro de la luna: presentes y activas, pero invisibles. En cualquier caso, insignificantes. El oleografía cultural oficial las privó de significado histórico, reservando para ellas solo un papel doméstico ampliamente subestimado.

Obviamente, entre los intelectuales y el pueblo no había ni la comprensión ni coincidencia de propósitos.

«¡Libertad! Independencia!», festejaban los insurgentes entusiastas y los voluntarios de las diferentes corrientes del Resurgimiento.

«Polenta! polenta!» respondían, tercos y sordos, los campesinos descritos por Nievo en la novela "Las confesiones de un italiano".

Tal vez, más específicamente, las mujeres-campesinas nunca se habían mezclado con los que exigían polenta: ellas sabían bien que cuando se vive de polenta (es decir, sólo polenta porque no había otra cosa con que alimentarse), se muere de polenta! O sea, de pelagra [1]. Esto había marcado el destino de muchas personas pobres que vivían y morían de este alimento. Para un campesino era normal comer 2-3 kg por día de polenta (y nada más ...) pero no sabía que esto sería perjudicial para su salud. Para mantenerse sano, habría sido suficiente que ingiriera 15 miligramos diarios de una sustancia química en esa epoca totalmente desconocida (fue "descubierta" sólo en 1937 por el estadounidense Conrad Arnold Elvehjem): la vitamina PP (Pellagra Preventing).

Además de las condiciones extremas de desnutrición, los italianos de finales del 800 tenían que lidiar con una variedad de dolencias y enfermedades hoy impensable. La falta absoluta de hábitos relacionados con la higiene, las condiciones de vida miserables e insalubres de seres humanos y animales, la precariedad de la protección del cuerpo con ropa inadecuada, etc. fueron factores que contribuyeron a la propagación de los innumerables casos de tuberculosis, cólera, mortalidad infantil y juvenil, malformaciones (raquitismo, cretinismo, etc.) que caracterizaron los comienzos de la Italia unida.

Pero, entre los otros, existía un flagelo extremadamente común: la sífilis. Una enfermedad horrible con un nombre bonito, mismo que se deriva del poema "Syphilis sive de morbo gallico" del médico veronés Gerolamo Fracastoro (1478-1553) que narra la historia del joven pastor Sifilo, que —después de haber ofendido a Apolo— es castigado por éste con una terrible enfermedad que provoca úlceras que desfiguran permanentemente su belleza.

Sabemos que esta enfermedad es causada por la bacteria Treponema pallidum, evoluciona en tres fases y puede ser adquirida incluso antes del nacimiento a través de la sangre de la madre infectada durante el parto o durante el descenso por el cuello del útero.

La transmisión también puede ser vertical, es decir, también de la madre al feto a través del cordón umbilical. Sin embargo, en la mayoría de los casos, el contagio (posible desde las primerísimas etapas de la enfermedad) se lleva a cabo a través de relaciones sexuales. El aspecto más destacado de la sífilis del siglo XIX fue su amplia disfusión entre los artistas de la élite europea. Padecieron esta enfermedad, entre los más famosos, Beethoven, Schubert, Schuman, Baudelaire, Flaubert, Maupassant, Toulouse-Lautrec, Van Gogh, Gauguin, Oscar Wilde, Nietzsche ...

No todos saben, sin embargo, que la propagación de enfermedades venéreas en la segunda mitad del siglo XIX tiene una estrecha relación con las guerras del Resurgimiento.
Es suficiente pensar en la concentración de hombres, en su mayoría jóvenes, de los ejércitos que se enfrentaron en la Segunda Guerra de Independencia: en la batalla de Solferino (24 de junio de 1859), por ejemplo, los soldados de los tres ejércitos en guerra, Piamonteses (≈ 36,000), Franceses (≈ 79,000) y austriacos (≈ 120,000), ascendían a 235,000!

Esta masa de soldados —cuando no se encontraban ocupados en el campo de batalla— hacían honor a los famosos "tres vicios", es decir, "Bacco, tabaco y Venus", costumbres inherentes a todos los ejercitos en todas las epocas. Para tener acceso a estos ... pasatiempos, el soldado utilizaba todos sus recursos: los "bienes" disponibles no escaseaban, sobre todo "a fáciles mujeres horizontales", como las llamaba U. Ojetti, es decir, las prostitutas.

Estas últimas seguían a los ejércitos en sus movimientos. Pertenecían, casi oficialmente, a los medios de subsistencia, acuarteladas en las retrovías. Ejercían su oficio donde se podía. Una consecuencia de esta prostitución a gran escala, fue un dramático aumento en las enfermedades venéreas. Para frenar esta patología y también para favorecer al ejército francés, nuestro aliado en contra de Austria, Cavour, en un decreto de 1859, autorizó la apertura de casas controladas por el Estado para el ejercicio de la prostitución.

Nacían de este modo, las "casas de tolerancia", así llamadas porque, en efecto, eran "toleradas" por el Estado. Eran de tres categorías. Las tarifas reguladas oficialmente, eran de 5 liras para las casas de lujo hasta las 2 liras por las populares. (22 y 9 euros, aproximadamente).

Entre otras disposiciones de caracter social y sanitario, la ley indicaba que las persianas de estos locales debían mantenerse siempre cerradas, norma que dio origen a la denominación de "casas cerradas".

La piedra angular de la legislación, sin embargo, era la vigilancia sanitaria, que se centraba en el instrumento llamado "licencia" requerido para la actividad, supeditado a inspecciones cada dos semanas.

El costo de estos exámenes médicos tenía que ser pagado por la prostituta: 1 lira para el control ordinario (€ 4.43), 1.5 liras (€ 6.64) para el control a domicilio, sin costo para las prostitutas calificadas como "miserables" por los ayuntamientos de sus lugares de origen. En la licencia se especificaban también las obligaciones de comportamiento de las prostitutas [2], tales como, por ejemplo, la prohibición del ejercicio de la profesión para las menores de 16 años, las prohibiciones sobre el uso de indumentaria poco decente, de estar en estado de embriaguez, asomarse por las ventanas o estacionarse en la puerta "incluso la de su habitación", de detenerse o frecuentar las calles principales, plazas y paseos públicos, de cometer "actos indecentes" en lugares públicos y pronunciar "palabras obscenas", de seguir a los transeuntes en las calles "o atraerlos con palabras o signos" y de permanecer fuera de la casa "sin justificación" después de las 8pm. La legislación estipulaba que las ganancias de las prostitutas fueran divididas, en los burdeles de primera clase, con la a la matrona a razón de 75% para esta última y 25% para la meretriz. En el caso de las demás categorías, 66% iba a las prostitutas y 33% a la dueña del local.

Además de la propagación de enfermedades venéreas, la prostitución llamada "ilegal", o sea la que se ejercía en la calle por las todavía numerosas "dames sans merci", se tradujo en un aumento significativo en los nacimientos de hijos ilegítimos. Las autoridades no estaban obligadas a informarse sobre la identidad del padre (en respuesta a una ley del Papa que se mantuvo en vigor en el nuevo Estado italiano: se pensaba que de este modo, se podía salvaguardar la unidad de la familia, suponiendo que muchos padres ilegítimos estaban casados). Los así llamados "pequeños bastardos" (siempre de padre legalmente desconocido y de madre, muy a menudo, no registrada) eran asignados a los denominados "hogares de beneficencia" o casas de niños.

Se permitía abandonar a un recién nacido. Los padres podían dejar el niño en los escalones de la iglesia del pueblo, o dejarlo en la puerta giratoria llamada l"Rueda" en la entrada del orfanato.

A estos pobres niños se les daban apellidos convencionales, con variaciones de una ciudad a otra. Eran frecuentes los de significado religioso, para protegerlos (Diostesalve, Diosteayude, Siervadedios, Diostecríe, Rezadios etc.) En Nápoles fue típico el apellido Esposito (de "Expuesto"), en Florencia el apellido Innocenti o Degl'Innocenti, en Milán, Colombo (ya que en el emblema del orfanato aparecía una paloma).

En Roma, durante el papado, a los huerfanitos se les llamaba projetti, de donde se deriva uno de los más comunes apellidos de la capital: Proietti. Después de la unificación de Italia, se utilizaron apellidos de fantasía relacionados con el medio ambiente (Montes, Arroyo ...). En los certificados, sin embargo, los huérfanos eran considerados todavía hijos de NN (abreviatura de "Nomen Nescio" o sea "no conozco el nombre").

Sirva esta larga introducción para comprender mejor las vicisitudes de la vida de una pobre campesina emiliana, Amalia Bagnacavalli, que vivió en la segunda mitad del '800, así como su determinación tenaz e indomable para hacer valer sus argumentos en contra de la negligencia, los abusos, la arrogancia y el autoritarismo lúgubre de esa epoca.

La historia de esta mujer luchadora y valiente, fue objeto de un estudio detallado de D. Kertzer, rector de la Universidad de Brown y experto de historia de Italia, quien redactó un libro, "El reto de Amalia", publicado por Rizzoli y actualmente clasificado entre los más vendidos de no ficción. Es un libro de historia e historias que cuenta nuestro pasado, no muy lejano. Y que hace sentirse mal.

Se relata, por ejemplo, que en el hospital de Los Expuestos de Bolonia, durante los diez primeros meses de 1895 había 128 niños alimentados artificialmente (con leche de vaca) y 95 de ellos murieron. "Aquí los niños se están muriendo financiados con dinero público", decían los artífices de las reformas sociales. En 1896 los niños que murieron porque no podían tomar leche de una mujer fueron 202 de 313. Estaban enfermos de sífilis, y habrían infectado a la mujer que los amamantara.

"El reto de Amalia" es la historia de una enfermera de 23 años, pobre y analfabeta, llamada —precisamente— Amalia Bagnacavalli, que vivía en un pequeño pueblo de montaña, Oreglia, que a su vez formaba parte del municipio de Vergato cerca de Bolonia.

Con ella vivían —en una casa hecha de piedras apiladas sin cal, el marido Luigi Migliorini, de treinta y dos años, su hija Adela, de un año, y su familia, compuesta por los padres, dos hermanos y una hermana. Toda la familia sobrevivía intentando extraer del suelo, duro y para nada fértil, lo necesario para alimentarse precariamente.

El problema crucial era como resistir el invierno, o sea, la teporada improductiva. Sobre la mesa aparecían sólo castañas (recogidos en el bosque), algunos huevos, muy pocas verduras y en ocasiones muy especiales, aves de corral. Tengan en cuenta que Amalia y las otras mujeres de la casa, nunca se sentaban a la mesa para comer: sólo los hombres se alimentaban sentados, mientras que las mujeresl —listas para atenderlos— se quedaban de pie, apoyadas contra la pared, ingiriendo lo que podían.

De acuerdo con una tradición que se remonta siglos, casi todas las mujeres pobres de Italia de finales del siglo XIX, para hacer frente a las dificultades económicas de la familia, cuidaban huérfanos de diferentes casas de niños, operadas primero por la Iglesia luego por civiles. En 1880-1890, las instituciones pagaban estos servicios con una cuota mensual de 9 de liras (≈ € 0.40/mes). Estos pagos se suspendían cuando los niños cumplían los 15 años de edad. A partir de ese momento, los varones tenían que subsistir por si mismos. Las muchachas podían ser cuidadas hasta los 10 u 11 años y luego enviadas a la "Academia", donde aprendieron a cocinar y coser.

Las chicas de la Academia no despertaban el interés de los hombres, porque no sabian trabajar y ,de hecho no habían recibido ninguna estimulación a temprana edad. Por esta razón, muchas de ellos —con dote—, se iban a algún convento o permanecían en la Academia hasta la muerte.

Amalia también decidió dar el pecho a un niño huérfano. Fue por lo tanto a Bolonia (con un viaje muy caro en tren, de 4 horas para cubrir 30 kilómetros!) y obtuvo en custodia del Hospital de los Expuestos una niña de pocos meses, Paola Olivelli, flaca y de aspecto débil. Por esto Amalia en un primer momento rechazó a la pequeña, pero la insistencia de los médicos y el riesgo de volver con las manos vacías a la familia en Oreglia, la convencieron a aceptar a la criatura y llevarla a casa. Sólo cuando se encontró en el tren pudo examinarla mejor. Lo que vió le provocó escalofríos: la pequeña tenía un cuerpo malformado, el pecho tenía una curvatura extraña y había algo más. En el hospital había notado que los ojos de la niña estaban cubiertos por una membrana y ahora que podía verla más de cerca, Amalia se dio cuenta de que la pequeña era ciega.

Había pensado que criar a un niño del orfanato le habría dado más prestigio ante la familia de su marido y le habría simplificado la vida. Pero pronto entendió que se había equivocado: la bebé lloraba todo el día y tomaba pecho con dificultad. Para evitar perder la leche, Amelia volvió a amamantar también a su hija Adela. Sin embargo, no sólo Paola seguía sin apetito, sino que la nariz comenzó a escurrirle sin cesar con una extraña substancia amarilla. Con el pasar de los días (exactamente 18 desde que dejó el hospital) la espalda de la bebé se cubrió con extraños puntos blancos, duros al tacto, aproximadamente del tamaño de la cabeza de un alfiler.

Luego apareció una erupción roja entre los puntos blancos y se extendió rápidamente hasta el interior de los muslos de la pequeña. Amanda decidió consultar al joven médico del pueblo, el dr. Carlo Dalmonte (quien prestaba sus servicios de forma gratuita, como médico del municipio). La respuesta fue inequívoca: la boca y, en particular, los labios de la niña estaban ulcerados.

Era un claro caso de la sífilis. Con las declaraciones escritas del dr. Dalmonte, Amalia, el día después, se volvió a presentar en el Instituto de Bolonia. Pero fue .... rechazada! Los responsables de los médicos del hospicio, a pesar de haber leído los documentos del dr. Dalmonte, volvieron a enviar Amelia a su casa, diciéndole que no amamantara durante un mes y que comprobar todos los días si en su cuerpo aparecían heridas o lesiones. Si eso sucedía, el Instituto no podría ayudarla, pero la referiría a un hospital especializado donde sabían tratar casos como el suyo. (A Amalia no se le mencionó el nombre: se trataba del Sifilocomio).

Durante las primeras tres semanas no pasó nada, luego —una mañana— la joven se dió cuenta de un ligero hundimiento junto al pezón del seno izquierdo. Después de otra visita al Dr. Dalmonte, Amelio regresó al hospital por tercera ocasión. Le dijeron que, lamentablemente, tenía sífilis —como muchas otras— y que dependía de ella moverse para ser tratada en institutos adecuados. Amalia regresó a casa aterrada por la idea de tener que contar a su marido y a la familia lo que le había sucedido. Los sintomas de la enfermedad no tardaron en manifestarse, como había previsto el medico del municipio. Y no solo eso, sino que también resultaron contagiados el marido Luigi y su hija Adele. Consciente de su enfermedad y de su involuntario contagio hacia sus seres queridos, Amalia decidió no quedarse callada.

Su verdadero "reto", desmedido e inaceptable, fue este: quería justicia. Por esto empezó la búsqueda de un abogado que, al igual que ella, no temiese desafiar a las autoridades que controlaban despóticamente, al Hospital de los Expuestos. Tuvo suerte: Augusto Barbieri —de veintiocho años en aquel entonces—, un abogado ambicioso y progresista aceptó el difícil encargo de defenderla durante el juicio.

Mientras tanto Amelia, su esposo Luigi y la pequeña Adele habían iniciado el tratamiento —con sales de mercurio— en la clinica Dermosifilitica de Bolonia. Pese a los esfuerzos, al poco tiempo tanto ella como su marido estaban cubiertos de llagas y ´se movían con dificultad, mientras su hijita Adele murió.

Por este motivo, entre otros, el abogado Barbieri demandó directamente al conde Francesco Isolani, presidente del consorcio administrador central de los Hospitales de Bolonia (del cual dependía también el Hospital de los Expuestos) y, junto con él, la cúpula del poder médico de la ciudad. En aquel entonces también (como hoy) la casta de las batas blancas gozaba de una impunidad sin límites: la práxis común consistía en rechazar siempre y en cualquier circunstancia cualquier responsabilidad.

No se podía, obviamente, arriesgar el patrimonio de los hospitales cada vez que un paciente se quejaba por el trato recibido. La demanda judicial de Amelia, entre otras cosas, habría provocado que la gente viera con nuevos ojos lo que acontecía en la Casa de los Expuestos: la cantidad inimaginable de enfermos, las historias increíbles y el sufrimiento inaudito de los pacientes que se debía también a la política de la iglesia que apoyaba la separación de las madres solteras de sus propios hijos.

Kertzer abre una ventana inedita sobre las condiciones sanitarias de aquella epoca, sobre como se vivía la sífilis (desde un punto de vista clinico y social), sobre la negligencia de los cuerpos medicos de los orfanatos, sobre la superficialidad con la que se enfrentaba una enfermedad terminal tan difundida que la gente la llamaba "peste", sobre la ligereza con la que se entregaban huerfanos a las nodrizas con el riesgo de graves enfermedades contagiosas. En su libro se lee entre lineas también la denuncia sobre las miserables condiciones del pueblo de pocos recursos, los campesinos, los analfabetas y sobre todo las mujeres, tan expuestas al riesgo de ser contagiadas y sin ninguna protección sanitaria y jurídica.

Es la descripción de una sociedad que empieza a cambiar bajo el impulso de las primeras luchas campesinas empujadas por los ideales socialistas que atraviesan Europa. Detrás de la apariencia exterior de un país que cambia, sin embargo, quedan las fuertes diferencias culturales, sociales y económicas entre las ciudades y el campo y la vulnerabilidad de los miembros de las clases bajas facilmente engañados aprovechando su antigua ignorancia. Mientras Amalia y Luigi, en medio de su dolor y duelo, aguantan los estragos de la enfermedad, descubren también cuan grande es la mala fe de los hombres y cuan ficticia es la justicia para los pobres.

Amalia Bagnacavalli pedia la reparación del daño sufrido por ella y por su familia. A causa de la sífilis, además de Adele, perdió otros dos hijos y otros dos nacieron muertos.

Amalia, sin embargo, no era diferente a las mujeres de su epoca y de su condición. Vivía en sumisión hacia su familia, su marido y hacia las convenciones sociales retrógradas típicas de la más pobre y aislada vida campesina.

El juicio, los aspectos financieros y los mecanismos políticos y sociales no lograron ablandar la pesada capa de ignorancia que la cubría. Amalia seguía viviendo en un contexto en el que la vergüenza y la sensación de discriminación son los primeros sentimientos que aparecen cuando se descubre (sin culpa) que se es víctima de la sífilis, enfermedad que por su alta relación con el sexo no solamente se vive como una patología sino también y sobre todo como un verdadero estigma social dramatizado por la propaganda eclesiastica-cultural difundida por miembros de la Iglesia y moralistas para los cuales enfermarse de sífilis era equivalente a un castigo por haber cometido actos inmorales.

Y aun así, el solo hecho de estar consciente de haber sido objeto de un abuso —o peor aún— de una injusticia y haberlo impugnado en contra de las más altas autoridades institucionales y sanitarias de la ciudad de Bolonia, convierte a Amanda en una heroina inedita en el contexto del siglo XIX.

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A noi basta, a noi classi dirigenti,

che la plebe non «senta» la sua miseria.

 

Giustino Fortunato, La città e la plebe