Luisa Ferida,
una zingara
a Cinecittà
Luisa Ferida,
una zingara
a Cinecittà
Donne d'Italia, di Claudio Bosio.
Terza e ultima parte.
30 maggio 2011.
- Si sono cercate mille motivazioni per
dare un senso a quella scelta: com'era possibile che due attori tra i
più famosi del momento, protagonisti mondani e di vetrina in una Roma
ormai in attesa soltanto dell' arrivo degli Alleati e scettica su
qualsiasi rinascita fascista, possano avere deciso l'avventura al Nord
senza rendersi conto di quanto fosse foriera di catastrofi più che
prevedibili? Tutti, specie nel loro mondo, lo avevano capito: solo loro
fecero quel passo. Non li spinse certo l'ideologia, Valenti non era
nemmeno iscritto al partito, lei era palesemente interessata soltanto al
mantenimento dello status che aveva, bene o male, raggiunto.
La verità è più semplice: non avevano
più una lira, solo debiti e crediti difficilmente esigibili, nessuna
prospettiva di lavoro in un cinema entrato in coma con la caduta del
Duce, il 25 luglio. Qualcuno li convinse che a Nord sarebbe ricominciato
tutto, che avrebbero fatto altri film, guadagnato altri milioni.
Bastava.
Osvaldo, che non era mai stato fascista (famosa era, negli ambienti mondani romani, l'imitazione che Valenti faceva del Duce, suscitando l'ilarità generale), si schierò quindi con la Repubblica di Mussolini. A modo suo, da guascone che ama le sfide.
Conobbe il principe Junio Valerio Borghese, comandante della Xa MAS. Ne fu affascinato. Così, nella primavera del 1944, si aggregò a lui, entrando a far parte, col grado di tenente, della "Xª Flottiglia", tanto leggendaria quanto vituperata.
Nel frattempo, la coppia aveva messo su casa a Milano. Erano giorni duri e difficili.
Al Nord, ma specialmente a Milano, Valenti fece tutte le sciocchezze e i passi falsi a cui lo portavano la sua vanità e la sua sventatezza, oltre al bisogno di denaro. Venne incaricato dal comandante Borghese di fare attività propagandistica e di creare una rete di scambio con la Svizzera per rimpinguare le casse della Decima. In questo genere di cose, da buon "levantino", ci sapeva fare. Non trascurando affatto il tornaconto personale, si occupò dell'approvvigionamento clandestino di carburante e mise in piedi un giro equivoco di contrabbando di valuta estera, di esportazioni truffaldine di merci nella vicina Confederazione Elvetica. L'attore seppe ben sfruttare le sue amicizie, si assicurò persino la complicità delle bande partigiane operanti in prossimità delle zone di confine e portò a termine, in condizioni di estrema difficoltà ed emergenza, l’incarico affidatogli.
Fatalmente (non ne sono mai chiarite le circostanze) strinse un’amicizia a dir poco innaturale con il peggior esponente della criminalità di Salò, il dottor Pietro Koch [1], noto come «il torturatore di Villa Triste», un feroce criminale a capo di una delle tante polizie «parallele» create dallo stesso Mussolini. In effetti, Valenti fu visto più volte a «Villa Triste». Chissà cosa ve lo spingeva. Qualche volta aveva portato anche la Ferida e così era nata la leggenda di lei che danzava nuda davanti ai torturati sanguinanti, per eccitarli e spingerli a chissà quali confessioni. E venne il "Dopoguerra".
Milano venne "liberata" il 25 aprile 1945. Erano passati solo 5 giorni e appunto, nella notte piovosa del 30 aprile, un gruppo di Partigiani della Brigata "Pasubio", agli ordini Giuseppe Marozin, detto "Vero", provvide a "far doverosa, immediata giustizia". Giuseppe Marozin, detto "Vero", era un tipo poco raccomandabile: si era trasferito a Milano per sfuggire a una condanna a morte del CLN (Comitato Liberazione Nazionale) del Veneto per crimini, furti, abusi e atrocità di ogni sorta. Le cose precipitarono. Luisa (incinta!) e Osvaldo (che stringeva in mano una scarpina di Tim) furono fucilati, dopo un processo che definire sommario è per lo meno grottesco. Erano già pronti i cartelli con la scritta in matita rossa: «I Partigiani della Pasubio hanno giustiziato Osvaldo Valenti»; «I Partigiani della Pasubio hanno giustiziato Luisa Ferida». Li posarono sui due cadaveri. Al rumore degli spari, da una delle case, scese in strada un prete, don Adolfo Terzoli, in tempo per impartire l’estrema unzione a due cadaveri. Li aveva riconosciuti al lume della sua torcia, e del resto bastavano i cartelli posati sui loro corpi. Fu lui a chiamare l’ambulanza e a salire a bordo, per accompagnare le salme all’obitorio. Entrò e si sentì svenire. Sui tavoli di marmo c’erano centoquaranta cadaveri raccolti nelle strade di Milano in quel solo giorno. Il 30 aprile 1945.
Questo epilogo ha degli antefatti che giova chiarire.
Verso il 10 aprile Valenti, conscio che la situazione precipitava, sperava di salvarsi consegnandosi ai Partigiani. Incontrò. A questo scopo, Nino Pulejo delle Brigate Matteotti, promettendogli non si sa bene che cosa in cambio dell’incolumità sua e di Luisa. Ma non venne preso sul serio. Comunque, trovò rifugio proprio in casa fuori Milano dello stesso Pulejo. Valenti e la Ferida vissero in quella cascina fino alla sera del 28 aprile, quando li trasferirono al comando di Marozin, in un appartamento di via Guerrazzi. Una notte, in quella cascina, Valenti fu processato davanti a un equivoco tribunale, composto da Partigiani che erano stati poliziotti della RSI (!) e da un misterioso individuo appartenente ai servizi segreti. Là fu confermata la sua condanna a morte, senza che nessuno gliene desse notizia.
Anni dopo, l'ex capo partigiano Vero Marozin, dirà: «Valenti era un guascone, le sue colpe erano frutto delle sue vanterie. La Ferida non aveva fatto niente. Ma era con Valenti. La rivoluzione travolge tutti». Sempre il Marozin, nelle sue memorie, affermò anche che l'ordine di eseguire l'esecuzione della Ferida e di Valenti venne direttamente dal C.L.N. nella persona di Sandro Pertini. «Quel giorno - 30 aprile 1945 - Pertini mi telefonò tre volte dicendomi: Fucilali, e non perdere tempo!» A detta di Marozin, Pertini si rifiutò di leggere il memoriale difensivo che Valenti aveva scritto durante i giorni di prigionia, nel quale erano contenuti i nomi dei testimoni che avrebbero potuto scagionare i due attori da ogni accusa. Non ci sono tuttavia altre fonti che confermino il diretto coinvolgimento di Pertini.
Di là del coinvolgimento di Pertini nella vicenda fatto da Marozin, è certo che ci fu un ordine tassativo del CLN: ma, chi lo avrà dato? e quando? Di quell’ordine, che sarebbe stato determinato dall’accusa ai due d’avere partecipato alle torture della banda Koch e di avere collaborato con i tedeschi, dovrebbe esserci stato un documento scritto. Nessuno lo ha mai visto. Di scritto c’è soltanto un foglio, datato 25 aprile, cioè 5 giorni prima, proprio in concomitanza con la Liberazione di Milano, dove si legge che «...il CLN su proposta dei socialisti vota all'unanimità il deferimento al tribunale militare di Valenti Osvaldo e Ferida Luisa per essere giudicati per direttissima quali criminali di Guerra per avere inflitto torture e sevizie a detenuti politici».
Dunque, si trattava di un deferimento, non una sentenza. Ma in quel mese di aprile, e peggio nei successivi, vigeva la fucilazione facile e sarebbe bastato un intervento di perone assai meno importanti di Pertini per decidere la sorte dei due attori. Marozin afferma che voleva scambiarli con cinque dei suoi presi prigionieri dai tedeschi. Resta insoluto il quesito di chi decise di liberarsi dei due ingombranti personaggi e ad eseguire l' ordine del partito: i socialisti? Pertini? o quale altro membro del CLN?
Marozin, più che un partigiano, era un bandito. Prima di eliminare i due prigionieri, aveva provveduto a depredarli di tutto quanto possedevano cioè argenteria, pellicce e denaro. In quel tempo, in pieno regime di "Borsa Nera" i soldi non avevano alcun valore: solo lo scambio-merce (meglio se pregiata) consentiva l’approvvigionamento dei beni di cui si necessitava, al di fuori della "Tessera Annonaria". Sempre nelle sue Memorie, Marozin nel Dopoguerra ammise la "confisca", ma sostenne di non ricordare dove tali beni fossero finiti: "Una parte fu restituita, credo, alla madre della Ferida (circostanza categoricamente smentita da quest'ultima) il resto andò a Milano". Dove?
Comunque, per Marozin, che Valenti e la Ferida fossero innocenti e la loro fucilazione fosse piuttosto un assassinio, come fu poi provato dalla Corte d' appello di Milano, non era affar suo. Non sarebbero stati due cadaveri in più o in meno a turbarlo. Proprio in quei giorni, senza sentir ragioni, aveva fatto fucilare il giovane conte Barbiano di Belgioioso e cinque suoi compagni, tutti Partigiani, finiti in un suo posto di blocco e presi per fascisti.
La triste storia di Luisa ha un epilogo: Negli anni '50, la madre della Ferida fece domanda al Ministero del Tesoro per ottenere una pensione di guerra, essendo la figlia la sua unica fonte di sostentamento. Si rese necessaria, pertanto, una accurata inchiesta da parte dei Carabinieri di Milano per accertare le reali responsabilità della Ferida, al termine della quale si concluse che "la Manfrini dopo l'8 settembre 1943 si è mantenuta estranea alle vicende politiche dell'epoca e non si è macchiata di atti di terrorismo e di violenza in danno della popolazione italiana e del movimento partigiano".
Al termine di tale inchiesta, la madre di Luisa Ferida ottenne la pensione di guerra comprensiva di arretrati.
[1]
Pietro Koch Storia, il più feroce e sadico aguzzino della Rsi,
fu incarcerato dagli stessi fascisti. Il 25 aprile ’45 venne
liberato dalle autorità fasciste che non si sentirono di
lasciarlo in mano ai Partigiani. Coi capelli tinti di biondo e
con documenti falsi che fanno di lui il commerciante Ariosto
Broccoletti, avrebbe potuto cavarsela, cercare la fuga
all’estero. Ma invece si recò a Firenze, dove la sua ultima
fiamma, Tamara Cerri, era stata arrestata. Non ebbe esitazioni:
come se volesse concludere con un bel gesto la sua sciagurata
avventura umana, consegnandosi alla Polizia. "Se avete arrestato
Tamara Cerri perché vi dica dov'è Koch, potete liberarla. Koch
sono io, arrestatemi". Il 5 giugno 1945 Pietro Koch, dopo un
breve processo davanti all'Alta Corte di giustizia, venne
fucilato a Roma, a Forte Bravetta. In cella aveva chiesto
l'assistenza di un prete, che gli fu concessa. Calmo,
impeccabilmente pettinato, prima di sedersi davanti al plotone
formato da venti Guardie di Pubblica Sicurezza si preoccupò di
assestare con la mano la piega dei pantaloni. La scarica di
fucileria gli staccò la volta cranica, che volò nell'erba. Tutta
la scena
venne filmata: regista d'eccezione, Luchino Visconti.
30 de mayo de 2011. - Se buscaron mil razones para tratar de dar sentido a esa elección: ¿Cómo era posible que dos de los actores más famosos del momento, protagonistas sociales en una Roma que sólo estaba esperando la llegada de los aliados y totalmente escéptica acerca de cualquier posibilidad de un resurgimiento fascista, pudieran haber decidido aventurarse hacia el norte sin darse cuenta de que este hecho presagiaba desastres totalmente previsibles?
Todos, sobre todo en su mundo, lo habían comprendido: sin embargo sólo ellos dieron ese paso. No los empujó ciertamente la ideología: Valenti ni siquiera estaba inscrito al partido, mientras ella estaba interesada claramente sólo en el mantenimiento de su nivel social y económico. La verdad es más sencilla: ya no tenían dinero, sólo deudas y ninguna perspectivas de trabajo en el ámbito de un cine en estado de coma después de la caída de Mussolini el 25 de julio. Alguien los convenció de que en el Norte todo volvería a ser como antes, que harían más películas y ganarían otros millones. Fue suficiente.
Osvaldo, que nunca había sido fascista (era famosa en los círculos sociales romanos, su imitación de Mussolini, que provocaba la hilaridad general), tomó partido del lado de la República de Mussolini. A su manera, como buen Gascón al que le encantan los desafíos.
Conoció el príncipe Junio Valerio Borghese, comandante de la Décima MAS, una unidad especial de la Armada italiana. El personaje lo impresionó. Así, en la primavera de 1944, se unió a él, pasando a formar parte, con el rango de teniente, de la "Décima", tan legendaria como vituperada.
Mientras tanto, la pareja se había establecido en Milán. Eran días duros y difíciles.
En el Norte, pero sobre todo en Milán, Valenti cometió todas las tonterías y los errores posibles, provocados por su vanidad y su imprudencia, además de la necesidad de dinero. Borghese le encargó llevar a cabo actividades de propaganda y crear una red de intercambio con Suiza para reabastecer las arcas de la Décima. Para este tipo de cosas, como buen "italiano de Constantinopla", era muy efectivo.
Sin dejar de lado el interés propio, se dedicó al suministro ilegal de combustible y estableció una red de contrabando de moneda extranjera, con exportaciones fraudulentas de bienes hacia la muy cercana Confederación Suiza. El actor fue capaz de aprovechar sus amistades y se aseguró incluso la complicidad de los grupos de partisanos que operaban en las cercanías de las zonas fronterizas. Llevó así a cabo, en condiciones de extrema dificultad y emergencia, la tarea que le había sido encomendada.
Para complicar irremediablemente la situación, (nunca fueron aclaradas las circunstancias) desarrolló una amistad —a decir lo menos incomprensible— con el peor exponente de la criminalidad oficial de Saló, el Dr. Pietro Koch [1], mejor conocido como "el verdugo de Villa Triste", un delincuente despiadado que comandaba una de las muchas policías "paralelas" creadas por el propio Mussolini. De hecho, Valenti fue visto varias veces en "Villa Triste". Quién sabe qué lo llevaba allí. A veces también llevó consigo a Luisa Ferida y por este motivo nació la leyenda según la cual ella bailaba desnuda frente a los torturados para excitarlos y provocar a algún tipo de confesión. Y así llegó la "posguerra".
Milán fue "liberada" el 25 de abril de 1945. Pasaron sólo cinco días y la noche lluviosa del 30 de abril, un grupo de partisanos de la Brigada "Pasubio" a las órdenes de Giuseppe Marozin, apodado "Vero", hizo "inmediata y necesaria justicia". "Vero" tenía mala reputación: se había transferido a Milán para escapar de una condena a muerte del CLN (Comité de Liberación Nacional) en la región del Véneto por crímenes, robos, abusos y atrocidades de todo tipo.
Las cosas se precipitaron. Luisa (¡embarazada!) y Osvaldo (que tenía en la mano un zapatito de Tim) fueron fusilados tras un juicio que es grotesco definir siquiera como sumario. Ya estaban listos los letreros escritos con lápiz rojo: "Los partisanos de Pasubio ejecutaron Osvaldo Valenti", "Los partisanos de Pasubio ejecutaron Luisa Ferida". Los apoyaron sobre los dos cadáveres. Al escuchar el sonido de los disparos, de una de las casas bajó un sacerdote, el Padre Adolfo Terzoli justo a tiempo para dar los últimos sacramentos a los dos cuerpos. Los había reconocido a la luz de su antorcha, aunque eran suficientes los letreros colocado sobre ellos. Fue él quien llamó a la ambulancia y subió a bordo para acompañar a los cuerpos a la morgue. Entró y se sintió desfallecer. En las mesas de mármol había ciento cuarenta cadáveres recogidos en las calles de Milán solamente ese día. El 30 de abril de 1945.
Este epílogo tiene unos antecedentes que deben ser aclarados.
Alrededor del 10 de abril, Valenti —que había entendido que la situación no tenía salida— intentó salvarse entregándose a los partisanos. Encontró, con este fin, a Nino Pulejo de las Brigadas Matteotti, prometiéndole quién sabe qué a cambio de la seguridad de Luisa y suya. Pero no fue tomado en serio. Sin embargo, encontró refugio en la casa del mismo Pulejo en las afueras de Milán. Valenti y Ferida vivieron ahí hasta la noche del 28 de abril, cuando fueron trasladados al cuartel de Marozin en un apartamento en Via Guerrazzi. Durante una de las noche anteriores, Valenti había sido juzgado ante un tribunal no acreditado, integrado por partisanos que habían sido policías de la República Social Italiana (!) y por un misterioso individuo que pertenecía a los servicios secretos. Ahí fue confirmada su condena a muerte, sin que nadie le avisara.
Años más tarde, el ex líder partisano Marozin afirmó: «Valenti fue un gascón, sus culpas fueron el resultado de su vanidad. Ferida no había hecho nada. Pero estaba con Valenti. La revolución se lleva a todos». También Marozin, en sus memorias, dice que la orden para la ejecución de Ferida y Valenti vino directamente del CLN y, más específicamente, de Sandro Pertini. «Ese día - 30 de abril de 1945 - Pertini me llamó tres veces diciendo: Fusílalos, y no pierdas el tiempo!». Según Marozin, Pertini se negó a leer el documento de defensa que Valenti había escrito durante los días de cautiverio, en los que figuraban los nombres de los testigos que podrían exonerar a los dos actores de todos los cargos. No hay, sin embargo, otras fuentes que confirmen la participación directa de Pertini.
Más allá de la participación de Pertini en el asunto reportada por Marozin, lo cierto es que hubo una orden clara del CLN, pero, ¿Quién la dio? ¿Y cuándo? Esa orden, que fue aparentemente determinada por las acusaciones de haber participado en las torturas de la banda Koch así como de haber colaborado con los alemanes, debería haber sido plasmada en un documento escrito. Nunca nadie lo ha visto.
El único escrito, de fecha 25 de abril, es decir cinco días antes —el día de la liberación de Milán— afirma que "... el CLN a raíz de la propuesta de los socialistas vota por unanimidad para que se refieran al Tribunal Militar a Osvaldo Valenti y a Luisa Ferida para ser juzgados como criminales de guerra bajo acusación de haber participado en actos de tortura contra presos políticos".
Así que fue una referencia, no una sentencia. Pero en ese mes de abril, y peor aún en los siguientes, existía el fusilamiento fácil y habría sido suficiente la intervención de personas mucho menos importantes que Pertini para decidir acerca del destino de los dos actores. Marozin dijo que quería intercambiarlos con cinco de los suyos que habían sido capturados por los alemanes. Sigue sin resolverse la cuestión de quién decidió deshacerse de los dos personajes: ¿Los socialistas? ¿Pertini? ¿Algún otro miembro del CLN?
Marozin, más que un partisano, era un bandido. Antes de eliminar los dos prisioneros, había procedido a robarles todo lo que poseían o sea plata, pieles y dinero. En ese momento el dinero no tenía ningún valor, sólo el intercambio de bienes (de preferencia de gran valor) permitía hacerse de las cosas necesarias, además de la "libreta de racionamiento". También en sus memorias, después de la guerra, Marozin admitió la "confiscación", pero afirmó no recordar donde terminaron las mercancías: "Parte de ellas fueron devueltas, creo yo, a la madre de Ferida (hecho negado categóricamente por esta última), el resto fue a dar a Milán". ¿Dónde?
De todas maneras, para Marozin, el que Valenti y Ferida fueran inocentes y su ejecución hubiese sido más bien un asesinato, como fue más tarde comprobado por el Tribunal de Justicia de Milán, no era asunto suyo. Dos cadáveres más no le preocupaban. Justo en aquellos días, sin escuchar razón, había hecho fusilar el joven Conde Barbiano di Belgioiso y cinco de sus compañeros, todos partisanos, que habían sido confundido con fascistas en uno de sus retenes.
La triste historia de Luisa tiene un epílogo: En los años 50, la madre de Ferida pidió al Tesoro una pensión de guerra, siendo su hija su única fuente de ingresos. Se hizo necesaria, por tanto, una investigación a fondo de la policía de Milán para establecer las responsabilidades reales de Luisa, tras la cual se concluyó que "Manfrini después del 8 de septiembre de 1943 se mantuvo ajena a los acontecimientos políticos de la época y no resultó involucrada en actos de terrorismo y de violencia en detrimento de la población italiana y del movimiento partisano".
Al final de esa investigación, la madre de Luisa Ferida obtuvo la pensión de guerra con valor retroactivo.