Vino di montagna
Vigne oltre i 500 metri, pendenze da brivido. La viticoltura eroica sfila in Val d'Aosta.

4 luglio 2009. - Ci sono vini perfetti e vini con l'anima. Raramente le due categorie coincidono. La personalità di un bicchiere va spesso di pari passo con un'idea di imperfezione. Qualcosa che spiazza, e non per il mero ghiribizzo dell’uomo: perché è così che la natura ha voluto.

Si chiude oggi il Diciassettesimo Concorso Internazionale Vini di Montagna, organizzato dal Cervim. Sei commissioni e trenta giurati di ogni nazionalità, chiamati a valutare 486 bottiglie europee. Più di ottanta vini degustati a persona, in neanche due giorni. Venti al mattino, venti al pomeriggio. Nettari intriganti per recensioni seriali. Il luogo è l'Hotel Billia di Saint-Vincent, dove un'aria condizionata che funzioni è più rara di un sorriso di D’Alema. La premiazione avverrà il 5 settembre ad Aymavilles (Aosta).

Il vino, un po’ per abitudine e molto perché gliel’hanno detto, ha finito con l'inseguire pedantemente il famigerato gusto moderno, quello che colpisce per colore e morbidezza. Rotondo, robusto, concentrato. Perfettino come il progressive dei Genesis senza Peter Gabriel. A Saint-Vincent le credenziali richieste sono altre. Al primo posto c'è addirittura il concetto di «difficoltà strutturali permanenti». Come a dire che il vino di montagna è per forza di cose un po’ masochista.

Non è facile avere le stimmate della viticoltura eroica. I vigneti devono ostentare sofferenza. E' una realtà da lacrime e sangue. Altitudine oltre i 500 metri, pendenze superiori al 30 per cento, sistemi viticoli su terrazze o gradoni. Farli è un calvario, interpretarli una sciarada. Galizia spagnola, Douro lusitano, Languedoc-Roussillon transalpina. La Renania-Palatinato coi mitici Riesling che sanno di idrocarburi. Il citrino spietato del Petite Arvine, la magia delle Cinque Terre. Le umili eccezionalità del Canton Ticino, la Francia misconosciuta delle Rhône-Alpes.

Sapori e profumi

Non sono necessariamente vini buoni. Qualcuno inciampa nella puzzetta di chi ama il «famolostrano» e talvolta non puoi amnistiare i difetti con l'alibi del terroir impervio. Nei casi migliori trovi però quella cosa antica, un po’ sporca e molto desueta che non è eretico chiamare diversità. Vini di pronta beva o col miraggio di non farsi dimenticare.

Decrittarli non è facile. Gli organizzatori del Cervim raccontano che i giurati più indisciplinati sono i giornalisti. Gli enologi sanno che è una tipologia difficile, per questo nei voti tendono se non altro a contestualizzare le bottiglie poco canoniche. Di contro, gli scribi - che tendono corporativamente al didascalico - esigono una normalità che qui non può essere di casa.

I vini di montagna non hanno grande corpo, non frequentano palestre. Alcolicità contenuta, acidità che può affettarti la lingua. Profumi che esplodono, aiutati dall’escursione termica giorno-notte. Realtà che difettano in educazione e abbondano in personalità. Rustici come chi li fa, insormontabili come i gradoni da cui provengono. Invalicabili e per questo stimolanti. Il trionfo dell’autoctono, dell’enclave, della nicchia. L'antitesi dello stereotipo-Supertuscan. E' un vino che non prenderà mai 98/100 su Wine Spectator, e anche per questo viene voglia di berlo.

L’evoluzione del gusto

Gli appassionati di Enolandia, secondo molte scuole di pensiero, ad esempio Roberto Cipresso e il suo Romanzo del vino, seguono una precisa evoluzione del gusto. Come per la musica, è un percorso lungo e tortuoso. Magari si parte dai Beatles per arrivare a Ornette Coleman. E così il vinofilo. Inizialmente si innamorerà del Vino-Sveltina, immagine non elegantissima per alludere al vino senza tannini, morbidone: il Morellino di Scansano, lo Shyraz australiano.

Poi passerà al Vino-Amplesso, già più difficile: il Cabernet Franc, per dirne uno, o la Barbera, per dirne un’altra. Quindi lo stadio massimo: il Vino-Armonia, cioè il Pinot Nero, esile e apparentemente facile (quindi complicatissimo) o l’intenso Nebbiolo.

A questo punto l'appassionato si potrebbe fermare, mediamente fiero di se stesso. C'è però chi varca l'ultima frontiera: il Vino-Strabismo di Venere. Quello nel quale l'apparente imperfezione assurge a cifra distintiva. E' il vino che non cerca mediazioni, che non ammicca. Che non veste alla moda. Non di rado, è un vino che nasce dalla montagna.

 

(La Stampa)