L'opera dello scultore
Giuseppe Gentili, per L'Aquila
Un’opera dell’artista marchigiano, definito il Chaplin della scultura,
per la ricostruzione della città. Di Goffredo Palmerini.

Un’opera dell’artista marchigiano, definito il Chaplin della scultura, per la ricostruzione della città. Di Goffredo Palmerini.

25 giugno 2009. - E’ stato il suo primo pensiero, dopo quel maledetto 6 aprile. Fare qualcosa per L’Aquila, la città d’arte che l’ha intrigato, per sempre, da quando l’ha visitata per la prima volta. Tanto da farci spesso tappa quando da Camerino si reca a Roma. Passa di buonora il traforo sotto il Gran Sasso, finché l’inconfondibile profilo di tetti, torri, cupole e campanili che si gode dal lungo viadotto autostradale che a nord costeggia la città non l’invita fortemente ad uscire, a guadagnare il centro per una breve sosta, magari solo per un caffè. Un istinto irrefrenabile lo chiama sempre verso l’incomparabile ambiente urbano aquilano, dove si respira un’aria diversa che profuma d’arte e di storia. Giuseppe Gentili ebbe qualche anno fa per L’Aquila un innamoramento a prima vista, per le sue architetture, le sue preziosità artistiche, le sue atmosfere e quella singolare origine ad opera di 99 castelli federati, ciascuno dei quali edificò al meglio il suo quartiere nella nuova città. Ammalia la sua sensibilità d’artista, ora anch’essa ferita, com’è lacerata nel profondo L’Aquila dalla violenza del sisma che l’ha colpita. Non si è dato pace, dal giorno terribile del terremoto, questo artista che non piega il suo talento alle mode, al conformismo, al business dell’arte. “Estroso, inquieto, ribelle - lo descrive Alvaro Valentini - geloso delle proprie idee e della propria libertà”.

Aveva subìto, nel febbraio scorso, un ricovero in ospedale per un intervento ad un arto, conseguenza del suo lavoro intorno all’imponente scultura “Energia” che da mesi sta realizzando nel suo atelier, nelle campagne di Camerino, tirando fino a tarda ora le giornate tra il ferro e il fuoco della fiamma ossidrica, nel suo antro come un piccolo Vulcano del tempo attuale, tra bagliori e fumi. La convalescenza era paziente, rispettosa degli ammonimenti dei medici secondo le rigorose prescrizioni dopo l’operazione. Ma la tragedia dell’Aquila ha toccato il cuore di questo artista sensibile, la cui generosa spontaneità è pari alla semplicità con la quale intrattiene rapporti umani veri, fuori d’ogni schema. L’ha fatta subito una promessa, all’indomani del sisma, ne sono il testimone. Anzi, ancora convalescente ha infranto le prescrizioni ed è tornato nel suo studio di scultore. Ha imbracciato la fiamma ossidrica e ha ripreso a fondere il ferro, la sua arte nobile, per L’Aquila. Per realizzare una scultura, il suo contributo alla rinascita dell’Aquila. Un’aquila ferita, naturalmente, ma altera come si conviene all’indole antica della città federiciana. Conta su un’asta generosa per la sua opera, promossa da qualche ente, il cui ricavato sarà la partecipe presenza dello scultore alla ricostruzione dell’Aquila, la città d’arte che egli ama.

Ha il sapore di altre amarezze la condivisione di questa tragedia. Gentili le ricorda, le sue dirette esperienze da terremotato, vittima del grave sisma che nel settembre 1997 colpì Colfiorito, Verchiano, Foligno, Assisi, Nocera Umbra, Serravalle del Chienti e Camerino, la città dov’egli vive e lavora, sull’appennino umbro-marchigiano. Crollò anche la sua casa, ma non fu disastro più grave di quello subìto poi dalla burocrazia e dal fisco. Di quella esperienza gli è rimasta traccia, soprattutto le delusioni del dopo terremoto. Fatte le debite proporzioni, egli conserva un giudizio sul dopo terremoto, magari un po’ eccessivo, comunque assai vicino a quello descritto da Silone in “Uscita di sicurezza” sul terribile sisma della Marsica. Così scriveva Ignazio Silone: “Nel 1915 un violento terremoto aveva distrutto buona parte del nostro circondario e in trenta secondi ucciso circa trentamila persone. Quel che più mi sorprese fu di osservare con quanta naturalezza i paesani accettassero la tremenda catastrofe. In una contrada come la nostra, in cui tante ingiustizie rimanevano impunite, la frequenza dei terremoti appariva un fatto talmente plausibile da non richiedere ulteriori spiegazioni. C'era anzi da stupirsi che i terremoti non capitassero più spesso. Nel terremoto morivano infatti ricchi e poveri, istruiti e analfabeti, autorità e sudditi. Nel terremoto la natura realizzava quello che la legge a parole prometteva e nei fatti non manteneva: l'uguaglianza. Uguaglianza effimera. Passata la paura, la disgrazia collettiva si trasformava in occasione di più larghe ingiustizie. Non è dunque da stupire se quello che avvenne dopo il terremoto, e cioè la ricostruzione edilizia per opera dello Stato, a causa del modo come fu effettuata, dei numerosi brogli frodi furti camorre truffe malversazioni d'ogni specie cui diede luogo, apparve alla povera gente una calamità assai più penosa del cataclisma naturale. A quel tempo risale l'origine della convinzione popolare che, se l'umanità una buona volta dovrà rimetterci la pelle, non sarà in un terremoto o in una guerra, ma in un dopo-terremoto o in un dopo-guerra”.

La ricostruzione, anche quando viene condotta decentemente come nelle zone terremotate nel 1997, lascia sempre problemi irrisolti, strascichi ed insoddisfazioni. Lo scultore lo teme, ancor più per una città d’arte come L’Aquila, con l’intero centro storico distrutto o gravemente danneggiato nel suo vasto patrimonio architettonico. Sarebbe davvero una sciagura, che neanche si vuole immaginare. Di qui la sua vicinanza, la premura affettuosa, la vigile attenzione. Anche in questa sua scultura, per L’Aquila. Sentimenti che danno il senso della dedizione totale dell’artista alle sue cause, come in questa per L’Aquila. La sente fortemente, quasi in maniera viscerale. Bisogna davvero conoscerlo, Giuseppe Gentili, da vicino come uomo, per capirlo a fondo. “Un personaggio misterioso ed affascinante - scrive Aldo Forbice in una sua nota - amico di Charlie Chaplin e di Federico Fellini, un lupo solitario che ha scelto la scultura come arma per combattere le sue battaglie per la vita, la pace, la giustizia, la libertà. (…) Vorrebbe cambiare il mondo questo artista. Ma, per fortuna, quel mondo di violenze, consumismo e di omertà, non ha cambiato lui. E per lui parlano, anzi gridano, le sue opere, come Don Chisciotte (un’autentica rappresentazione di sé stesso), l’uomo di Sarajevo, che denuncia gli orrori della guerra, di tutte le guerre”. Insomma, un artista che fa della scultura la ragione dei suoi valori, della coscienza e dell’impegno civile, una ribellione all’indifferenza e al conformismo, spesso anche nell’arte, incurante dei giudizi.

La sua, infatti, è un’arte etica distante anni luce dai giochi del mercato, istintiva e solidale, segno distintivo della sua profonda umanità e d’una consapevole comunione con i drammi che l’uomo del nostro tempo vive. “Le sculture ispide e contorte - annota ancora Alvaro Valentini in una scheda critica sull’arte di Gentili - segnate dalle stimmate del dolore e della sofferenza, sono depositarie di un atavico tormento esistenziale. Il coacervo ferroso mantiene una sua precisa identità e ogni elemento plastico concorre a inscenare il teatro del mondo e dell’umanità”. Giuseppe Gentili è energia creativa allo stato puro, indifferente alla fatica, fino al limite della propria resistenza fisica. Un vero enigma esistenziale la sua completa fusione con l’opera d’arte che di volta in volta crea, alla quale trasmette la cornucopia delle proprie emozioni, delle speranze e dei valori, solo per i quali è giusto vivere. “Al di là dei soggetti scelti e sempre innervati ad un infuocato impatto etico - scrive il critico d’arte Gabriele Simongini - Gentili assembla, fonde, scolpisce o modella frammenti e flash di un apocalisse destinata ad annientare l’uomo e i suoi valori. Eppure, nelle sue opere dalla materia rappresa come lava, l’essere umano sopravvive sempre, magari carbonizzato e dilaniato, lacerato e mutilato. E queste sculture sembrano quasi rispecchiare quella in-determinazione dell’individuo di oggi o meglio la sua liquefazione di cui ha parlato il grande sociologo Zygmunt Bauman. Una liquefazione che l’artista registra ma che cerca anche di bloccare col potere catartico della scultura. Il cuore di una simile ricerca sta nella volontà di fermare e dare consistenza plastica all’energia naturale ed umana, di volta in volta positiva o negativa, anche se quasi sempre prevale quest’ultima: dai terremoti alla distruzione nucleare o bellica (…)”. L’arte di Gentili, dunque, sa parlare schietta a tutti gli uomini di buona volontà, sa volare alto contro ogni snobismo. Con una locuzione tanto aderente nell’essenza quanto appropriata persino al suo corpo, l’artista marchigiano è stato definito il “Charlie Chaplin della scultura”. Lo scultore, peraltro, incontrò davvero Chaplin nel 1971 e dedicò a “Charlot” una mostra e diverse opere. Il celebre attore fu colpito da questo artista eclettico, tanto da acquistare ben due opere di Gentili (Il suonatore di tromba e Il direttore d’orchesta) che collocò nella sua villa di Vevey, in Svizzera. Pochi mesi dopo un’altra grande scultura di Gentili, il Don Chisciotte, sarà collocata nel parco della villa di Pablo Picasso, a Mougins. Mentre Federico Fellini, nel ’72, ebbe un’opera di Gentili direttamente in dono dall’artista.

Giuseppe Gentili è nato nel 1942 a Pollenza. Ha fatto gli studi a Macerata, diplomandosi “maestro d’arte”. Nel 1966 la sua prima mostra personale. La sua produzione si concentra su sculture in ferro, bronzetti, pannelli in bassorilievo, sbalzi di rame, ma anche dipinti e grafica. Sue opere di grandi dimensioni sono diventate monumenti, collocati in parchi pubblici. Molte le esposizioni e i riconoscimenti, in Italia e all’estero. Le opere di Gentili sono intinte d’impegno civile, nella tutela dell’ambiente e nella lotta contro ogni tipo di violenza. Particolarmente emozionante la serie di lavori ispirati ad episodi biblici, al volto di Cristo e ai drammi della guerra. Dell’artista fece un ritratto assai singolare, nel 1998, mons. Antonio Bittarelli in un suo articolo sulle opere di Gentili ispirate al terremoto dell’anno prima in Umbria e Marche. “Veste dimesso, - scrisse mons. Bittarelli - cammina a piedi o in bicicletta, parla senza ricercatezza, non chiede risposte, non si lega a posizioni ma ne ha di fortissime, prende possesso dell’intera città con una gigantesca opera delle sue mani, ti compare davanti con gli occhietti che implorano pietà. Lo diresti senza arte né parte anche quando ti hanno garantito che è scultore. Lavora in ferro. Lo taglia, lo fonde, lo chioda, lo incastra, quell’ometto di quaranta chili che lavora come un dominatore e vive come un girovago venuto fuori da un romanzo russo. (…) Nessuno sa se mangia, se dorme, se possiede tutti i pezzi necessari al corpo per continuare, perché nelle varie operazioni lo hanno rabberciato quasi al completo. Neppure si sa se il contatto con l’esterno lo tiene con i sensi e il cervello, o con la parapsicologia”. Una fotografia perfetta dell’uomo e dell’artista, della sua sensibilità. Ma anche un’immagine perfetta dell’anima. Non poteva essere altrimenti. D’altronde sull’anima l’insigne prelato contava ben diversa competenza che non chi scrive.

 

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