Contro l'identità

Intervista allo storico abruzzese Costantino Felice.
Di Roberto Ciuffini.

28 luglio 2010. - Quello degli “Abruzzesi forti e gentili” è un vecchio cliché antropologico-letterario, abbastanza noto a chi conosce un minimo di storia regionale. Dopo il 6 Aprile dell’anno scorso però è diventato uno slogan di cui in molti hanno abusato: politici (nazionali e locali), giornalisti, per non parlare degli stessi cittadini aquilani, i quali, pur avendolo inizialmente più subìto che scelto, hanno finito per accettarlo e abbracciarlo non senza una certa dose di autocompiacimento. Ma “in cosa consiste, se c’è, l’identità di un popolo? […] E in quale misura le semplificazioni idealtipiche corrispondono a gesti e atti concreti?” Sono domande che si pone Costantino Felice, docente di storia all’università “D’Annunzio” di Pescara e Chieti, nel suo ultimo libro: “Le trappole dell’identità. L’Abruzzo, le catastrofi, l’Italia di oggi”, edito da Donzelli.

La molla che ha spinto lo storico (autore di numerosi libri sull’Abruzzo e sul meridione) a scrivere questo saggio è stata l’osservazione delle “trame narrative che [sul terremoto] hanno intessuto il potere politico e l’informazione: una travolgente ondata di retorica su stereotipi e luoghi comuni che non poteva non sorprendere chiunque avesse un minimo di frequentazione con la storia delle catastrofi, oltre che con la particolare storia di questa regione”. Secondo questo “discorso pubblico”, esisterebbe un tipico e immutabile carattere regionale, un’abruzzesità i cui tratti salienti sarebbero la forza, la dignità, il coraggio, la tenacia, la generosità, la naturale laboriosità.

Questa narrazione è stata rafforzata e resa più autorevole dall’uso di citazioni pseudo colte, come quella, ormai celeberrima, del cosiddetto “discorso di Pescasseroli” di Benedetto Croce (“Quando c’è bisogno non solo di intelligenza agile e di spirito versatile, ma di volontà ferma e di persistenza e resistenza, io mi son detto spesso a bassa voce, tra me e me, e qualche volta l’ho detto anche a voce alta: - Tu non sei napoletano, sei abruzzese!”. Parole sentite ripetere innumerevoli volte. Il discorso di Croce, in realtà, è stato completamente decontestualizzato e quindi travisato. In questo modo si è fatto passare il filosofo per ciò che non era, sia per concezione che per temperamento: filius locis e non, come amava invece definirsi, filius temporis.

Quali sono le ragioni di tutta questa retorica? Qual è lo schema concettuale che la sorregge? Alla base di tutto vi è un sillogismo: sarebbe stata una natura ostile, aspra e inospitale a produrre l’”Abruzzo forte e gentile”. Ma se è legittimo dire che “i quadri ambientali condizionano le forme dell’economia”, poiché “dalla varietà geografica dei luoghi sono conseguiti molteplici assetti nell’organizzazione produttiva e mercantile”, “[…] molto più complicato e controverso si presenta invece il discorso secondo cui i contesti geografici plasmerebbero la comunità come pure i singoli individui, dal lato psichico e caratteriale”.

Nell’invenzione dell’abruzzesità, insomma, un ruolo preponderante l’ha avuto la cultura “alta” (la storiografia, le scienze sociali, per non parlare, come si accennava in apertura, della letteratura: dal pastore dannunziano al cafone siloniano fino ad arrivare all’”Abruzzo gran produttore di silenzio” di Giorgio Manganelli, passando per Piovene e il suo Abruzzo dall’anima irriducibilmente “cantonale”). Sia chiaro: nella produzione e perpetuazione di pittoreschi miti letterari non c’è, di per sé, nulla di scandaloso. È un fenomeno che accade da sempre. I problemi sorgono quando su queste narrazioni vengono edificate e inventate immutabili identità locali, “caratteri” di intere comunità. 

Ma le identità e i caratteri collettivi sono costruzioni complesse e soprattutto variabili nello spazio e nel tempo.

Usando gli strumenti e i concetti dell’indagine storica, ma senza negarsi ampi riferimenti interdisciplinari, Costantino Felice sottopone a critica le nozioni stesse di “identità” e “cultura”, per scoprirle  e mostrarle anche a noi  relative e non assolute, storiche e non dogmatiche, ibride e non pure, aperte e non chiuse.

Professor Felice, quando e per opera di chi nasce il mito dell'Abruzzo "forte e gentile"? E perché esso ha avuto così tanta fortuna?

«Abruzzo forte e gentile» è il titolo di un denso e suggestivo libretto uscito nel 1882, opera di Primo Levi, che nel sottotitolo significativamente recitava «impressioni d’occhio e di cuore». Dietro c’era una lunga tradizione di «miti» identitari  la cui genesi letteraria nel libro ricostruisco sia pure per grandi linee (si comincia con Guinizzelli e Boccaccio). Ma si tratta, appunto, di impressioni. Proficuamente se ne sono alimentate la letteratura e l’antropologia. Ben altro dovrebbe fare l’indagine storica. La fortuna di quello slogan probabilmente dipende dal suo contenuto edificante e consolatorio: forse ha funzionato e funziona in termini di marketing. Ma la realtà è ben più complessa e articolata. 

E' davvero possibile parlare dell'esistenza di caratteri regionali plasmati dalla natura? Quanto c'è di vero in quest'idea dell'"abruzzesità"?

L’abruzzesità è un «mito», una invenzione mitopoietica che, come tutti i miti (una solida letteratura sociologica e storiografica ne chiarisce ampiamente l’eziologia), risponde a esigenze psicologiche di autoriconoscimento della comunità. I suoi referenti con la realtà sono scarsi o nulli. Farvi ricorso può diventare anzi mistificante. Ha ragione Croce: ciascuno di noi è filius temporis non filius loci. Il resto è chiacchiera.

Nel corso di tutti questi anni si sono affermati due miti in parte contrastanti: quello degli abruzzesi che sarebbero, tutti e indistintamente, "forti e gentili" e quello di un Abruzzo che, a causa della natura collinare e montuosa del suo territorio, avrebbe maturato invece un carattere irriducibilmente cantonale e campanilistico, in cui le divisioni e finanche le rivalità sono più numerose degli aspetti accomunanti…

Il fatto è che non esiste un’identità predefinita. Le identità si costruiscono attraverso processi storici: sono obiettivi da conseguire. Gli abruzzesi non sono questo o quello: sono ciò che in un determinato contesto mostrano di essere. Le identità ridotte a stereotipi diventano trappole, come recita il titolo del mio libro. E le trappole si possono evitare solo tenendo alto lo spirito critico.

Lei afferma che se proprio dobbiamo indicare un tratto distintivo dell'Abruzzo questo è la "centrifugità". Che cosa intende con questo concetto?

L’Abruzzo non è mai stato una regione chiusa e appartata rispetto al resto del mondo, un«isola», come in tanti hanno ripetuto. Se per definire il profilo della nostra regione occorre per forza rintracciarne qualche tratto distintivo e peculiare, questo lo si può cogliere piuttosto nella «centrifugità»: non tanto nel senso in cui ne parla Piovene («istinto dissociativo», tendenza alla «disgregazione interna»), quanto invece come propensione degli abruzzesi a riversarsi oltre confine, a cercare risorse e occasioni d’impiego in terre diverse da quelle d’origine. Secondo linee d’evoluzione destinate con il tempo ad accentuarsi, l’Abruzzo è andato infatti caratterizzandosi – soprattutto nell’interno montano, ma in certa misura anche sul versante marittimo – per un intenso irraggiamento verso altri mondi, ora vicini (transumanza e migrazioni periodiche) ora lontani (grandi esodi dell’età giolittiana e del secondo dopoguerra). Le «spinte centrifughe» – l’opposto cioè della chiusura e dell’isolamento – hanno lasciato segni profondi su qualità e cadenze di vita, oltre che, specificamente, sulle forme della crescita economica. 

Un altro luogo comune che nel suo libro contrasta con determinazione è quello secondo cui l'Abruzzo sarebbe ancora, nel profondo, una regione dall'anima agropastorale e arcaica. La nostra regione ha conosciuto, al contrario, uno sviluppo e un dinamismo economico- industriale e processi di modernizzazione indiscutibili…

Gli stereotipi letterari del «pastore» dannunziano e del «cafone» siloniano, stilizzazioni idealtipiche che hanno antichissime ascendenze, rimandano a un universo agropastorale arcaico e immobile. Ben diversa è la realtà storica. La dura geografia dell’Appennino nel passato imponeva, a causa delle sue ridotte suscettività agricole, un’assidua ricerca di fonti alternative (o integrative) di sostentamento. Di qui il modularsi di molteplici strategie produttive: pastorizia transumante e stanziale, migrazioni periodiche, pluriattività rurale, e soprattutto iniziative protoindustriali. Sulle montagne abruzzesi, oltre che sul versante litoraneo, ha potuto in tal modo germinare e consolidarsi una varietà di economie che per secoli, pur tra alterne congiunture, sono riuscite a tenere saldamente in equilibrio i delicati rapporti tra uomo e ambiente. L’Abruzzo come oggi si presenta ai nostri occhi non è soltanto il risultato di fenomeni recenti. In realtà il «miracolo» del secondo Novecento affonda alcune sue radici in processi di lunga durata. L’Abruzzo storico che emerge dalle indagini più approfondite è molto diverso da quello agropastorale di derivazione antropologica e letteraria: un Abruzzo permeato anche da cultura industrialista, da spirito d’impresa e volontà di riscatto, secondo moderne logiche di profitto capitalistico. Non c’è solo l’Abruzzo degli etnologi, dei letterati e degli umanisti. C’è anche un Abruzzo – ai fini dello sviluppo moderno sicuramente più decisivo – dei tecnici, degli scienziati, degli imprenditori. È a questo Abruzzo operoso e innovativo, attento a valorizzare risorse ed energie locali (acque dei fiumi e legna dei boschi nei tempi passati, qualità del paesaggio, minerali e gas del sottosuolo nei tempi odierni), sempre pronto a cogliere le opportunità di mercato in ambito nazionale e internazionale (si pensi all’età giolittiana), che in buona parte si deve ciò che la regione è attualmente.

Nei processi di costruzione dell'identità un ruolo fondamentale è svolto dalle strategie narrative messe in atto dal Potere e dalle élite culturali. Queste narrazioni non si limitano ad essere delle riproduzioni  ma sono manipolazioni a tutti gli effetti, quando non delle invenzioni tout court.
Il fatto, però, che ogni identità collettiva risulti più una costruzione sociale indotta dal Potere che non un dato originario non la rende meno efficace e meno reale. E' così?

Il discorso pubblico costruito sul terremoto aquilano ci ha mostrato – e continua ancora a mostrarci – le derive della postmodernità cui stanno andando incontro la cultura e la politica. Quale efficacia abbiano queste identità manipolatorie non saprei dire. Di certo impediscono di vedere la realtà per ciò che è. Di conseguenza anche le prospettive future diventano incerte e preoccupanti.

Si può dire, secondo lei, che gli abitanti dei comuni colpiti dal terremoto, a furia di sentirsi etichettare come "forti e gentili", hanno finito per conformarsi a una rappresentazione che, facendone in sostanza delle persone rassegnatamente bonarie, ha contribuito a renderli succubi e passivi di fronte a tutta una serie di decisioni politiche, anche autoritarie, e di speculazioni economiche?

Sono d’accordo. L’insistenza su stereotipi rassicuranti e consolatori possono indurre alla passività e al conformismo (una sorta di ipnosi collettiva). È ciò che è accaduto per un certo periodo con il terremoto aquilano. Ultimamente pare che cominci ad esserci qualche risveglio (manifestazioni della carriole ecc.).

Come giudica, nel metodo e nel merito, ciò che il governo ha fatto per L'Aquila e per gli altri paesi distrutti dal terremoto (piano C.A.S.E. ecc.)?

Preferisco non entrare esplicitamente in questioni politiche. Dico soltanto che il terremoto aquilano ha mostrato plasticamente, su scala globale, forse come mai era accaduto in precedenza, quanto la politica fosse oggi ridotta a spot pubblicitario: politica-pop e politica-territorio, come dicono gli osservatori più attenti.

Verso la fine del suo libro lei ricorda il cosiddetto "mito della grande Aquila", un progetto, ideato da Adelchi Serena durante il fascismo, che avrebbe dovuto fare dell'Aquila, attraverso una serie di trasformazioni urbanistiche e  imponenti opere pubbliche, il fulcro dell'intera regione, dopo decenni di declino e di umiliazioni e usurpazioni subite dal governo centrale (un progetto peraltro velleitario, dato che le condizioni economiche e sociali dell'Aquilano erano, all'epoca, molto arretrate).

E' esagerato dire che, dopo il terremoto, sia stata usata spesso, da parte della classe politica (sia nazionale che locale), un'eguale e altrettanto velleitaria (vista la situazione di emergenza e crisi economica e sociale) "retorica del riscatto"? Mi riferisco, per esempio, alla scelta di ambientare a L'Aquila un evento imponente come il G8 quando le persone erano ancora sofferenti nelle tende o a tutti i roboanti annunci a sentire i quali L'Aquila diventerà una specie di laboratorio di città futuribile e all'avanguardia in ogni campo...Anche qui i toni pomposamente usati stridono con la realtà dei fatti (che è quella, invece, di una città con 16 mila persone cassintegrate e per giunta ancora sommersa dalle macerie...)

Sono d’accordo con lei. Nella trama narrativo (discorso pubblico) che il potere e l’informazione hanno ordito, e continuano a ordire, sul terremoto dell’Aquila a farla da padrone pressoché assoluto è la retorica: tutto è ridotto a teatralità e spettacolo. Anche il fascismo, come si sa, era pomposità, retorica, ostentazione muscolare (spesso ridicola!) di forza e coraggio, sguaiata esibizione di primati, dietro i quali spesso non c’era proprio nulla. E si sa anche come poi è finita.

Nel suo libro Lei scrive: "E' difficile trovare una regione altrettanto ricca di tipizzazioni che pretendono di riassumerne più o meno compiutamente l'identità", aggiungendo subito dopo: " Forse in questo l'Abruzzo è specchio dell'Italia intera (sicuramente del Mezzogiorno)".

Secondo lei, perché l'Italia, e il Sud in particolare, continuano ad essere prigionieri di miti e stereotipi identitari? In questo siamo meno "moderni" di altre nazioni, europee ed occidentali, oppure è un fenomeno generalizzato?

L’Abruzzo, per l’asprezza e la maestosità stessa dei suoi ambienti geografici, è sempre stato una regione particolarmente fertile di miti identitari, i quali sono maturati soprattutto sul terreno dell’antropologia e della letteratura (mentre tutt’altro dovrebbe fare la storia). Questo vale ovviamente anche per l’Italia nel suo insieme. Si pensi allo stereotipo degli «italiani brava gente», o anche a quello degli italiani «popolo di santi, navigatori e poeti». E ancora più insistite e falsificanti sono le etichette che si continuano ad affibbiare ai meridionali: familismo, pigrizia mentale, scarsa propensione all’intrapresa, fino ai rivoltanti giudizi d’impronta razzista. Occorre uscire dai queste gabbie ideologiche che possono portare a forme di barbarie. Insistere sulle presunte identità (come se ci fossero le razze: gli italiani, i meridionali, i cinesi, i musulmani e via seguitando) rischia di far scivolare le società (o anche le singole comunità) – come tante volte è accaduto nella storia – in logiche di contrapposizione e di esclusione, fino ai conflitti sanguinari. Nel caso della nostra regione bisognerebbe fare in modo – nei comportamenti quotidiani come nelle grandi scelte – che ci siano il meno possibile gli «Abruzzi», al plurale, e invece il più possibile l’«Abruzzo», al singolare.

 

roberto.ciuffini@gmail.com – Il Capoluogo.it

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